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Lucinda
Williams
Little Honey
[Lost
Highway/ Universal 2008]
 
Pronti…partenza…via!.Riff...batteria…hey, il basso! Dov'è il basso?...Stop!...ok,
ripartiamo subito…di nuovo riff…batteria…basso…partiti!...vai Lucinda,
tocca a te: "ho trovato l'amore che cercavo stando dietro una chitarra
elettrica, è un amore vero, è un amore vero"…ecc...ecc...
Ecco, questa è la cronaca del primo minuto di Little Honey,
e basterebbe per parlarne per pagine e pagine. Lucinda Williams
è tornata, e anche in fretta stavolta, con l'urgenza di dire poche e semplici
cose: che sta bene, che ha smesso di rimuginare sulle proprie sofferenze
e, soprattutto, che ha voglia di suonare tanto rock. Un messaggio chiaro
da quei primi versi di Real Love,
dove la soluzione di tutto era sempre stata lì, dietro una chitarra. Ma
si poteva iniziare benissimo dalla fine del disco per ricevere la stessa
comunicazione, dalla cover di It's A Long Way
To The Top, un titolo che nel 1975 per gli allora esordienti
AC/DC suonava come una speranza (poi avveratasi) di poter suonare rock
and roll per una vita, ma che oggi appare quanto mai autobiografico anche
per lei, che al top, libera di fare rock and roll, ci è arrivata davvero
dopo una lunga strada. Se era apparso palese che West
le fosse servito soprattutto a svuotare l'anima da tutte le disperazioni,
Little Honey arriva per riempirla di nuovo con il campionario d'ordinanza
di una musicista rootsy: tanto country sempre (Well,
Well, Well tira in ballo addirittura Charlie Louvin),
ma anche molto blues (Heaven Blues),
gospel (la lunga Rarity) e persino
soul (Tears Of Joy è una sorta di
country-soul, la suadente Knowing
sciorina una inaspettata sezione fiati).
Stili, idee, suoni prima
ancora che canzoni, è questa la grande novità portata da Little Honey
nella carriera di Lucinda Williams, un disco nato per essere suonato prima
ancora che ascoltato, dove la chitarra di Doug Pettibone è libera
di essere protagonista indiscussa e di toglierle spazio in Honey
Bee, e la sezione ritmica David Sutton e Butch Norton pompa
ritmo pestando selvaggiamente come sul palco. Ed è anche il suo primo
disco auto-celebrativo, evidente in quell' omaggiare la sé stessa che
fu recuperando schegge impazzite perse nel tempo (la strascicata Circles
and X's è del 1985), oppure lasciando che un mostro sacro come
Elvis Costello incasini la melodia di Jailhouse
Tears per glorificare la propria ammissione nel gotha del rock
che conta. E in questo turbine di esercizi di stile, persino le sue tipiche
ballate struggenti (Little Rock Star,
If Wishes Were Horses e l'acustica
e bellissima Plan To Marry) acquisiscono
una insolita leggerezza.
Little Honey non sarà mai ricordato come uno dei suoi dischi più rappresentativi,
non ha lo spessore dei suoi predecessori e ne conserva persino alcuni
difetti (ad esempio l'eccessiva prolissità), ma è il disco dove per la
prima volta Lucinda non si atteggia a fare la rocker vissuta e non ostenta
più le proprie cicatrici, ma fa semplicemente la rock-singer. E un disco
così non serviva solo a lei.
(Nicola Gervasini)
www.lucindawilliams.com
main.losthighwayrecords.com
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