|
Justin
Townes Earle
The Good Life
[Bloodshot
2008]
Il secondo nome non è messo li per caso, ricordandoci come il papà glielo
abbia affibbiato in onore dell'unico vero "cattivo maestro" conosciuto
nella sua vita, Townes Van Zandt. Il cognome…quello lo conosciamo tutti
e sappiamo bene da dove arriva: Justin Townes Earle, primogenito
del bandito Steve Earle, nato ventisei anni fa dal matrimonio con Carol-Ann,
mette la testa fuori dal guscio grazie a questo esordio in casa Bloodshot.
The Good Life segue in verità le prove generali fatte con
l'ep Yuma, e sbriga le faccende in soli trenta minuti: un pugno di dieci
canzoni che non si preoccupano minimamente di gareggiare con i trascorsi
familiari, cercando semmai una voce fuori dal coro, distante dal chiasso
del rock'n'roll. "Ho cominciato facendo un disco di old time country,
ma ascolto così tanti generi di musica diversi" - ci tiene a precisare
Justin: gli crediamo sulla fiducia, anche se l'approccio qui svelato è
a dir poco sorprendente nella sua natura tradizionalista e "conservatrice".
Una raccolta di vecchi honky tonk, danze swinganti e folk asciutti che
paiono grattare il fondo del barile alla ricerca dei resti di Hank Williams,
Lefty Frizell e Jimmie Rodgers.
Insomma, di rock'n'roll nemmeno l'ombra, nonostante in casa Earle ne sia
sempre girato parecchio. A dire il vero sono girate anche molte sostanze
più pericolose, se è vero che il giovane Justin è già reduce da una adolescenza
turbolenta e da qualche abuso che lo ha lasciato per troppo tempo al palo.
Di buoni esempi non ne ha certo conosciuti, ma ora che anche il padre
si è rifatto una vita, perché non dedicarsi anima e corpo al songwriting?
The Good Life diventa allora un pretesto per prendere le
misure con il proprio talento, il quale resta abbozzato ma tenace: basta
un violino per spruzzare di western swing Hard
Livin' oppure resuscitare i fantasmi di una serata alla Grand
Ole Opry in The Good Life. La produzione
del veterano R.S. Field si attiene all'asciutta dimensione retrò,
tanto da far sembrare il nostro Justin un seguace del revival imbastito
da gente come Paul Burch e Wayne Hancock. A loro rimandano l'honky tonk
trotterellante di What Do You Do When You're
Lonesome (un titolo che rispetta ogni clichè) e Lonesome
and You. Un'ode alla southern roads questo The Good Life, lo
ammette lo stesso protagonista, che si abbandona volentieri alla dolce
pigrizia roots di South Georgia Sugar Babe e
Ain't Glad I'm Leavin', complici il
banjo e mandolino di Cory Younts, la pedal steel magistrale di Pete
Finney (Dixie Chicks, Patty Loveless) e il fiddle di Josh Hedley.
Lodevole ripasso, anche se ci piacerebbe iscrivere Justin Townes Earle
nell'ala più progressista del suono Americana e non nelle retrovie dei
passatisti ad ogni costo. A sugerrire uno spazio di manovra ci sono l'accorata
folk song Who Am I to Say, la splendida
elegia di Lone Pine Hill ed un finale
con Faraway In Another Town che promette
imminenti sviluppi. Tutto dipende dai capricci del nostro Justin. Lo attendiamo
speranzosi.
(Fabio Cerbone)
www.myspace.com/justinearle
www.bloodshotrecords.com
|