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17/09/2007 |
![]() Washington
Non
è una novità l'interesse della Glitterhouse per la scena musicale norvegese e
a giudicare dal catalogo proposto in questi anni la mossa si è rivelata molto
intelligente: la qualità davvero alta degli artisti sin qui licenziati dall'etichetta
tedesca depone a favore di questa scelta, senza alcun dubbio coraggiosa e aggiungiamo
pure rischiosa. Non è semplice infatti convincere il pubblico più legato alle
sonorità rock e persino roots americane che anche il mercato europeo sia ormai
in grado di offrire valide alternative, spesso e volentieri superiori a molte
realtà d'oltreoceano. Lo hanno dimostrato nomi quali Midnight Choir e più di recente
gli Helldorado,
ottima rock'n'roll band dalle tonalità country noir e punkabilly. Oggi è il turno
dei Washington, un trio della cittadina di Tromso che in patria si è già
distinto per ottime critiche ed una buona accogienza di pubblico. Rune Simonsen,
voce e chitarre, Esko Pedersen, batteria e Andreas Høyer, basso,
hanno formato la band sul finire degli anni novanta, debuttando con un Ep, Black
Wine, nel 2003, seguito a ruota dal loro esordio ufficiale, A New Order Rising,
il disco che ha sostanzialmente attirato le attenzioni della Glitterhouse. Astral
Sky, titolo affascinante che riflette le stesse liriche del trio, dotate
di un passo epico e malinconico, conferma la mossa vincente di esporli ad un più
vasto auditorio. Il suono elegante e la bellissima voce di Simonsen formano una
amalgama elettro-acustica che evoca l'epopea dei 70's, tra lo spleen tipico di
Neil Young, certe digressioni country rock della West Coast ed una più innata
propensione alle rotondità del pop. Sostenuti da una nutrita schiera di ospiti
che allargano la formazione con chitarre (Raldo Useless), pianoforte (Christer
Knutsen), lap steel (Jorn Raknes), percussioni (le congas di Danny Young) e violino
(Cecilie Heramb), i Washington regalano veramente momenti di pacata poesia rock,
a tratti cogliendo melodie sospese e senza tempo, senza necessariamente sconvolgere
e reinventare il genere. A volte non serve affatto, basta l'arte di saper scrivere
canzoni dense come Boulder on the Brink e Trenches, ballate di una
grande eleganza formale, intervallate da un sound a tratti più aggresivo (la trascinante
Vaults) e dichiaratamente pop (Firewheel). Quando gli arrangiamenti
si rendono più rarefatti, come accade puntualmente in Astral Sky, Oh
My e The Stand, complice la stessa cadenza vocale di Simonsen, è forte
la somiglianza con i primi Coldplay: si accentuano le tonalità british
della band, bilanciate tuttavia dalle radici folk della splendida Aftermath,
con mandolino e tromba e dal finale maestoso di I Lost my Way. Una piccola
sorpresa per un disco dalla produzione senza sbavature e di conseguenza dall'indiscutibile
valore internazionale. |