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19/12/2007
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Owen
Temple
Torna a farsi sentire la
voce di Owen Temple, forse non così avverso a chi frequenta le
sorti del cantautorato roots texano e i suoi contorni più elettrici. Right
Here & Now, se i conti tornano, era stato licenziato nel lontano 2002,
cinque anni di assenza dalle scene forse per riflettere sulla strada sin
qui percorsa e sulla scelta "irresponsabile" di abbandonare un lavoro
sicuro come analista finanziario per inseguire l'inevitabile sogno musicale.
Two Thousand Miles fornisce qualche indicazione sul tempo
trascorso: Owen Temple cambia parzialmente aspetto e attegiamento, si
mostra con un piglio da rocker in copertina e accelera moderatamente i
ritmi, dando maggiore risalto alle chitarre elettriche (ci sono quelle
di David Grissom in sessione, non un dato secondario a quanto pare).
Il suono strizza l'occhiolino al cosiddetto movimento Red Dirt,
un country rock melodico e robusto al tempo stesso. Insomma, meno sangue
da troubadour nelle sue vene e più spavalderia, anche se i tratti essenziali
del songwriting non cambiano nella sostanza. Owen Temple non è infatti
un funanbolo in quanto a scrittura: le sue canzoni scodinzolano intorno
alle immancabili tematiche di una relazione amorosa, fra incomprensioni,
piccole domande e poche risposte ai problemi quotidiani di coppia, qualche
volta provando persino a sfruttare le armi dell'ironia. Così nasce ad
esempio uno spigliato honky tonk, Red Wine and
Tequila, che in quanto a metafore non è certo un trattato di
poesia. Stesso discorso andrebbe applicato a The
Pluto Blues, che di blues possiede davvero poco e molto invece
deve concedere ai soliti up&down di una perfetta ballata country: Temple
si strugge per il recente declassamento di Plutone da vero pianeta a semplice
roccia fra le mille nell'universo, cercando probabilmente un "ardito"
paragone con la vita di tutti i giorni. Assodato dunque che da queste
parti non hanno avuto effetto le lezioni dei mostri sacri Townes Van Zandt
e Guy Clark, il timbro stradaiolo di Owen Temple in Two Thousand Miles
copre le magagne della parte testuale con un suono scorrevole e limpidissimo,
soprattutto per gentile concessione di una band stellare: sono presenti
all'appello l'irrinunciabile Lloyd Maines (chitarre, steel, dobro,
mandolino e naturalmente produttore di origine controllata), il citato
Grissom alla solista, Glen Fukunaga (altro transfuga della Joe
Ely band) al basso, infine Terri Hendrix e il giovane Gordy
Quist ai cori. La bilancia si rimette così in pari, portando
freschezza e solidità in You Want to Wear that
Ring, Swear It Off Again
e Can't Drink Enough to Sing, dentro
e fuori la tradizione, fra spinte rock'n'roll e piedi ben saldi nella
terra country. La densità melodica di I Just
Cant Quit Loving You, You Don't Have
to be Lonely e della lunga cavalcata (con una danza guidata
dal fiddle che ricorda Lyle Lovett) di Rivers
Run From Many Waters è un altro punto a favore di un disco
con poche ma precise certezze, orgogliasamente di genere. |