Jesse
Sykes & The Sweet Hereafter
Like Love, Lust & The Open Halls Of The Soul
[Barsuk
2007]
   
La maturazione del sogwriting di Jesse Sykes e l'evoluzione sonora
dei suoi Sweet Hereafter, backing band che vede ancora una volta
nel compagno e chitarrista Phil Wandscher (ex Whiskeytown, vale
sempre la pena ricordarlo) un tassello insostituibile, hanno sempre viaggiato
di pari passo. Se il loro esordio doveva ancora affrancarsi da una confezione
musicale molto legata a certo folk-rock ombroso e malinconico, già il
successivo Oh,
My Girl era stato una testimonianza della crescita di quel
sound, capace di aprirsi alle diverse anime della tradizione. Like
Love Lust & The Open Halls of The Soul ne porta a compimento le
intuizioni con uno stile che pur conservando tutte le caratteristiche
del passato, allarga enormemente le potenzialità della band di Seattle.
Al centro nuovamente la voce di Jesse Sykes, un sussurro rauco e sentimentale,
non esattamente bella e uniforme, ma dotata di un innegabile fascino decadente.
Calza come un guanto sui riverberi delle chitarre di Wandscher, così come
si rivela il compendio migliore per interpretare liriche spesso vulnerabili,
dotate di una fragilità e di una poesia che vuole soprattutto indagare
le emozioni umane e le incomprensioni che ne possono scaturire. Per esaltare
questo connubio di parole e musica, Like Love Lust & The Open Halls of
The Soul si è concesso una libertà di azione maggiore, solamente intuita
nell'apertura di Eisenhower Moon, folk evocativo in cui serpeggia
un'armonica che si ricollega al precedente disco. Niente di più fuorviante,
perché quello che segue è veramente quanto di meglio siano riusciti a
fare sino ad oggi Jesse Sykes & the Sweethereafter, ormai a pieno diritto
fra le grandi chanteuse americane al fianco di Neko Case o Cat
Power. LLL è il primo segnale di un'impronta elettrica più marcata
e di ritmiche più risolute, un'estensione delle radici della band verso
tonalità a sprazzi quasi psichedeliche, copiosi riferimenti alla stagione
del folk rock dei sixties e ad una soul music vellutata (con l'hammond
di Wayne Horvitz). Caratteristiche che ritornano più volte nel
corso del disco, dalle spirali di How Will We Know al passo elegante,
trasognato di Station Grey e I Like The Sound, con i loro
ripetuti incastri di voci e chitarre, fino alla magistrale accoppiata
conclusiva costituita da Morning It Comes e Open Halls Of The
Soul, quest'ultima un vero gioiello country rock accopagnata dalla
viola di Anne Marie Ruljancich. Tra gli episodi più sintomatici di questa
trasformazione meritano tuttavia una citazione anche You Might Walk
Away, ballata che si cala in ambientazioni pop dove giocano un ruolo
essenziale gli ospiti Micah Hulscher e Steve Moore al pianoforte ed organo,
oppure la magnifica Air Is Thin, che si snoda in un lungo canto
sublimato dal finale gospel, con un efficacissimo tappeto della sezione
fiati (la quale ritorna splendidamente nella coda di Aftermath).
Ancora una volta le chitarre "Morriconiane" di Phil Wandscher si assumono
il compito di tenere insieme le parti e condurre le danze, uscendo trionfanti
da una produzione (Tucker Martin) che pone un'attenzione maniacale nella
ricerca di quello che un tempo si sarebbe chiamato il mood, il
tutto immerso in un'atmosfera corale. Uno dei dischi migliori di questo
primo scorcio del 2007
(Fabio
Cerbone)
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