inserito
il 01/10/2007
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Bettye
Lavette
Accadde esattamente trentacinque
anni fa nei Fame Studios di Muscle Shoals, Alabama: l'età dell'oro del
southern soul e della Stax era agli sgoccioli, la black music prendeva
altre strade. Soffiava un vento di rivolta, il funk bussava alle porte,
Detroit e la Motown dettavano una nuova legge e Bettye Lavette,
che ironia della sorte proveniva proprio da quelle parti, era capitata
in quegli studi per registrare il disco della sua consacrazione. Doveva
intitolarsi Child of the Seventies: c'erano i Memphis Horns al completo
e Brad Shapiro alla regia. Rimase in un cassetto, un disco fatto e finito,
fino a quando qualche curioso discografico francese non pensò bene di
ripescarlo dall'oblio alla fine degli anni novanta. Da allora è partita
la rivincita di Bettye Lavette, una dark lady che ritorna sul luogo delitto,
The Scene of the Crime appunto, per rimettere insieme tutti
gli indizi. Oggi come ieri, con la differenza di una vita intera alle
spalle, il suo "inferno da mandare avanti", ma soprattutto quella voce:
affilata come una lama, dura come un pugno nello stomaco, vera. Tornata
al centro delle attenzioni con I've
got My Own Hell to Raise, esordio in casa Anti prodotto con
la solita mano vellutata da Joe Heny, Bettye Lavette ci ha preso gusto
alzando la puntata. The Scene of the Crime è esattamente speculare al
suo predecessore: tanto suonava ovattato, elegante ma anche appassionatamente
soul quel disco, quanto risulta impetuoso, grezzo, in alcuni frangenti
sfacciatamente rock il nuovo capitolo. È l'aria del Sud ad avere acceso
l'animo di Bettye: con il team produttivo formato da Davide Barbe
e Patterson Hood e l'adunata dei Drive by Trruckers al completo
(di cui il secondo resta l'indiscusso timoniere), i dieci proiettili caricati
per l'occasione sparano con violenza, tanto da consacrare in maniera definitiva
la voce della protagonista. A convincerla dell'azzardo probabilmente la
presenza di qualche vecchio superstite dei Muscle Shoals (David Hood,
padre di Patterson, al basso, e Spooner Oldham al piano wurlitzer):
i nervi si sono sciolti e i consigli della nuova generazione sono stati
accettati con fiducia. Che l'aria sia bollente lo si intuisce dalla scelta
di accendere la miccia con I Still Want to Be
Your Baby (Take Me Like I Am) di Eddie Hinton, altro
spirito soul che avrebbe meritato ben altre attenzioni. È solo l'antipasto
di una "signora del blues" famelica che aggredisce con rabbia Jealousy
(Frankie Miller) conducendola negli anfratti scuri dell'animo, quindi
fa a fette You Don't Know Me at All e
scioglie definitivamente le briglie in The Last
Time (John Hiatt), ribadendo il concetto di un rock'n'soul
sfrontato, sensuale, appiccicaticcio, degnamente celebrato nell'insolente
sound di Before the Money Came (The Battle of
Bettye LaVette), unico brano originale scritto a quattro mani
con Patterson Hood. Il sound dunque è inevitabilmente elettrico, torrido,
anche se miracolosamente equilibrato: i Drive by Truckers rispettano l'attrice
principale e lavorano di fino per costruire un mood, un'atmoosfera piuttosto
che rubarle la scena. Lo testimonia la misurata alternanza con ballate
sanguinanti e dolcissime, aperte confessioni soul che si giocano tutto
sul binomio di piano e chitarre (Choices,
I Guess We Shouldn't Talk About That Now),
oppure prevedono una congiura con la steel di John Neff. Qui allora
nascono i capolavori, che nello specifico si chiamano Somebody
Pick Up My Pieces, matrimonio country sudista che porta la
firma di Willie Nelson, e Talking Old Soldiers,
brano della premiata coppia Elton John - Bernie Taupin rivoltato sottosopra
da un'interpretazione semplicemente sublime, da far tremare i polsi...divina
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