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14/02/2007
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Bob
Frank & John Murry Progetto assolutamente intrigante
questo World Without End, seppure non di particolare originalità
tematica (in molti sono già passati da questi lidi). Una spettrale
raccolta di murder ballads ci accompagna attraverso dieci narrazioni storiche,
realmente ispirate da fatti criminosi accaduti fra gli inizi dell'ottocento
la metà del secolo scorso. Ogni brano, da Little Wiley Harpe,
1803 a Doc Cunningham, 1868 è strettamente segnato dal
nome dell'assassino e dalla data del misfatto, un freddo e spietato diario
di morte. Come dire, un filo rosso che segue il cammino di violenza che
da sempre ha segnato la costruzione della società americana dai
suoi albori. Soltanto che questa volta il dettaglio messo in campo da
Bob Frank e John Murry, songwriters per conto proprio ed
uniti dalla forza di un'idea, si sofferma con maniacale attenzione sulle
sofferenze e la follia dei singoli, l'agonia e il terrore delle vittime,
accompagnando il racconto con un libretto ricco di citazioni da gazzette
dell'epoca, persino dei versi di William Faulkner, ed illustrato dai disegni
di Charlie Buckley. Uno sforzo encomiabile per la difficoltà del
tema trattato, istintivamente repulsivo e a rischio di noia: con materiale
completamente autografo tuttavia, Wolrd Without End non è affatto
una boriosa riflessione sul passato, non si sofferma sul ripescaggio della
tradizione folk, ma propone una rielaborazione attuale di quest'ultima.
Coraggiosi Bob Frank e John Murry, i quali si dividono la posta in gioco
alternandosi al canto e maneggiando chitarre, banjo e lap steel. Prodotto
da Tim Mooney degli American Music Club e masterizzato da Matt
Pence dei Centro-Matic, il suono di Wolrd Without End conferma infatti
un fondamento folk e country, che si aggira nei territori oscuri e southern
gothic dei Sixteen Horsepower (la marcetta di Madeline, 1796),
naturalmente del Nick Cave delle ben note Murder ballads o della Handsome
Family più onirica. Proprio per questo motivo è veramente
difficile circoscrivere la solennità di Tupelo, Mississippi,
1936 e John Willin, 1844, oppure i rintocchi lugubri di Jesse
washington, 1916 dentro il ristretto ambito roots o peggio alternative
country. I momenti più apertamente tradizionalisti restano relegati
alla dolce litania country rock di Bubba Rose, 1961 e alla gemella
Kid Curry, 1904. Il suono distintivo di piano ed organo, così
come le curiose comparse del glockenspiel e dell'accordion (tutti nelle
mani di Nate Cavalieri), cospirano piuttosto verso un suono più
impalpabile e spirituale (i toni gospel della conclusiva Doc Cunningham,
1868), che conserva l'anima più recondita di queste melodie. |