inserito
il 03/12/2007
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![]() Will
Hoge
Fino ad oggi, nonostante
la loro singolare bellezza e la travolgente onestà di un'oratoria cresciuta
nel culto di Bruce Springsteen, di Bob Seger, della negritudine targata
Stax/Volt e delle radici sudiste di quel Tennessee che all'autore ha dato
i natali, i lavori in studio di Will Hoge si erano prestati alla
coltivazione del dubbio. Poiché ascoltandoli in parallelo agli speculari
album dal vivo registrati e distribuiti for fans only (ce n'è più di uno
per ogni disco ufficiale, e ognuno di essi merita ricerca e ascolto),
si poteva temere che i primi non sarebbero mai riusciti a catturare la
burbera eloquenza acustica, il febbrile contagio rockista, il flusso di
adrenalina ed elettricità dei secondi. Per fortuna il problema è stato
centrato dallo stesso Will Hoge, che al quarto disco di una carriera sempre
vissuta all'insegna di un rock'n'roll di stampo classico che più classico
non si può ha infine deciso di mettere in secondo piano l'energia delle
esecuzioni (comunque sempre ragguardevole) per concentrarsi sulla scrittura
delle canzoni, per l'occasione caricate di una tonnellata di soul e di
sfumature vintage di organo, intrecci acustici e rhytm'n'blues di stampo
downhome che faranno la felicità di chiunque abbia consumato a furia di
ascolti i vecchi lp della Atlantic di Otis Redding, quelli del "negro
bianco" Eddie Hinton, quelli di sezioni ritmiche formidabili come Bar-Kays
e Mg's. Ne è saltato fuori questo Draw The Curtains, sul
quale aleggia una bruciante fede tradizionalista ancora una volta vicina
alle taglienti unghiate tra rock e boogie degli indimenticati Georgia
Satellites e al rockwriting tutto chitarre e ululati soul dei dischi solisti
del loro capobanda Dan Baird (non a caso arruolato in veste di
sei corde solista per il torrido gospel-rock di Washed By The Water),
e che non solo risulta essere l'album migliore di Will Hoge, ma uno stupendo
prodotto "di genere", uno di quei dischi indubbiamente minori e forse
inidonei a scalfire il corso della storia del rock ma, parimenti, quanto
mai adatti ad inchiodarsi nei lettori per restarvi a lungo. Draw The Curtains
richiama l'attenzione dell'ascoltatore senza trucchi e senza colpi a vuoto:
nelle sue dieci canzoni non c'è altro se non una malinconica pedal-steel
fradicia di country-rock settantesco (The Highway's
Home), selvagge sventagliate errebì (Sex,
Lies & Money), frizzanti rintocchi byrdsiani e folkie (These
Where The Days), un pianoforte che sanguina (When
I Can Afford To Lose), una slide che ringhia amore perduto
e rimpianti (Dirty Little War), il
drumming dell'ex-Wilco Ken Coomer a delineare suggestioni roots
e il frusciar di B3 (Rami Jaffee dei Wallflowers) che impasta di
carezze soulful una meraviglia come Silver Or
Gold. E tuttavia, è abbastanza per decidere nuovamente di sporcarsi
le mani con un compendio di blue-collar rock grintoso, stradaiolo e irrequieto,
diviso tra la cattiveria delle frequenti rasoiate southern e il romanticismo
sofferto di ballatone grondanti soul, che vuol sì chiudere metaforiche
serrande sui conflitti sentimentali dell'autore, ma al tempo stesso ne
apre altre sulla sua carriera e sulla nostra voglia di seguirla: peccherò
di entusiasmo, eppure mi sembra proprio che lascino filtrare un rigenerante
bagno di luce e rock'n'roll. |