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03/09/2007
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![]() Luke
Brindley
Se vi dicessi perché ho
acquistato questo disco mi dareste (giustamente) del pazzo, ma io dico
che se avete voglia di sentire un talento fresco, ben lontano dal cliché
del cantautore rattrappito sulla propria chitarra, e non lo comprate,
allora i pazzi siete voi. Potreste anche già conoscere il Luke Brindley
che, in combutta col fratello Daniel, capitanava i Brindley Brothers,
artefici di due più che discreti album - Filled With Fire (2006) e Playing
With The Light ('04) - all'insegna di un frizzante power-pop-rock in stile
Gin Blossoms e dintorni. Be', dimenticatelo. La band che sta dietro a
questo album omonimo (parrebbe un esordio ma non lo è: succede infatti
ai precedenti How Faint The Whisper e Spring Song, rispettivamente di
sei e sette anni fa) rimane più o meno quella dei dischi citati, e comprende,
oltre ai fratelli Brindley (dei quali Luke è un prodigio di tecnica chitarristica,
Daniel un mago delle tastiere), Harry Evans ai tamburi, Kevin
MacIntire al basso, Jared Bartlett alla sei corde elettrica
e un nutrito apparato di fiati, eppure il suono che hanno inseguito, trovato
e spruzzato di magia risulta del tutto diverso. C'è sì una cover, peraltro
sublime, del Bob Dylan di Love Minus Zero / No Limit, che in pochi
minuti di lacerante poesia acustica rende omaggio a un mondo intero di
songwriters e storytellers cresciuti tra la strada e le sue diramazioni
secondarie; il faro che illumina le canzoni di Luke Brindley, però, è
quello del Van Morrison tra r&b, Ray Charles e Motown di fine anni '60
e inizio '70, in questo caso ulteriormente rinvigorito da sventagliate
roots che ne smussano gli spigoli senza inibirne l'ispirazione. Fate tuttavia
attenzione: qui non troverete musica "soul" in senso stretto, bensì un
errebì bianco tendente al rock che nelle sue parentesi più movimentate
(Never Alone, Surrender, Ain't Got You, Already
Gone) non può non ricordare il Van Morrison di Moondance. Altrove,
forse anche a causa di una voce che rammenta un Tom Petty più arrochito,
ci si può commuovere per il folk-rock metropolitano di Mad Love
o sorridere divertiti per il melodioso roots-pop di Don't Want To Lose
You, ma si tratta di brevi attimi prima che l'ombra del rosso irlandese
torni ad inghiottire il tutto: i lunghi tour de force delle bellissime
Hold On To The Mystery e Darkness Done, con il loro interplay
tra fiati e steel-guitars, con le percussioni che si sfrangiano in sottofondo
fino a rasentare il silenzio, con la raucedine tenorile del titolare che
declama versi di afflitta spiritualità, citano apertamente il blue-eyed
soul mistico e grandioso di canzoni come Listen To The Lion e Almost Independence
Day, e di riflesso dell'intero St. Dominic's Prewiev, le cui atmosfere
Luke Brindley cerca di trasporre in chiave urbana. E se non posso dire
che l'allievo abbia superato il maestro (cosa che, trattandosi di Van,
appare assai improbabile per chiunque), nulla mi vieta di affermare che
è sulla strada giusta per tallonarlo da vicino. |