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inserito
il 02/03/2006
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Dayna Kurtz si è definita in passato un "road dog", artista errabonda
che ha passato dieci anni in giro per i palchi e le bettole di mezza America,
in cerca delle sue stesse canzoni e magari scacciando molti fantasmi.
Forse per questo ci ha messo così tanto tempo ad emergere: cassette autoprodotte,
rarità dal vivo, ma nella sostanza il music business ha cominciato a prendere
familiarità con lei soltanto a partire dal seducente Postcards from Downtown,
folk "maudit" e notturno che ha introdotto la Kurtz tre le chanteuse
più intriganti di questi anni. Colpevolmente silenti sul talento di questa
songwriter del New Jersey, anche noi ritagliamo, con eccesivo ritardo,
un piccolo spazio alla sua arte: Another Black Feather è
il terzo lavoro a trovare ospitalità in Europa presso l'olandese Munich,
e dopo le conferme del precedente Beautiful Yesterday (a cui collaborava
Norah Jones), chiede vendetta per l'indifferenza che circonda questa oscura
signora della canzone d'autore. Folksinger appassionata, rootsy come sa
esserlo Lucinda Williams, romantica e "dissoluta" come una interprete
jazz, tormentata da una rauca vena rock alla Marianne Faithfull, la Kurtz
va ascritta di diritto tra le nuove regine del suono tradizionale americano,
almeno quanto Mary Gauthier ha meritato tale appellativo la scorsa stagione.
Another Black Feather è disco dagli umori più nervosi e meno strettamente
country, pur sempre dominato da una scrittura classica e fuori del tempo.
Lo dimostra anche la gestazione, persino troppo stereotipata, che lo ha
preceduto: Dayna, sotto pressione per i lunghi mesi in tour e il poco
tempo da dedicare al songwriting, si è ritirata per due settimane in una
baracca nel deserto di Sonora in Arizona. Qui ha ascoltato i silenzi e
steso le bozze per le canzoni che avrebbero costituito lo scheletro del
nuovo lavoro. Un disco struggente nella sua semplicità armonica, poetico
e impulsivo al tempo stesso, registrato in analogico, con un suono caldo
e conseguentemente poco costruito, insieme al batterista e produttore
Randy Crawford e ad una ristretta cerchia di musicisti (Dave
Richards al basso e Peter Vitalone al piano, organo e accordion).
Gli estremi di questo procedimento si sono palesati nelle cadenze nervose
dell'apripista From the Bottom Up, un rock'n'roll urbano attraversato
dal battito ritmico delle mani e nel romanticismo di Nola, una
commovente dedica alle strade di New Orleans (just take me in your
scented arms/ New Orleans i'm coming for more). Another Black Feather
vive di questi opposti, da una parte la cullante e dolcissima melodia
spanish di Venezuela, il walzer da lacrime di Right for Me,
l'altrettanto disarmante confessione della title tarck (una fisa che colora
di border e Texas una ballata sottilmente pop), dall'altra il folk scarnificato
e tenebroso (solo voce e banjo) di Banks of the Edisto, la tensione
blues di Showdown e il crescendo mozzafiato della torbida e arrabbiata
It's the day of Atonement, 2001, con tanto di Kletzer band (tromba,
clarinetto e accordion) a confondere e contaminare. Nel finale tutto si
placa: qualche sorpresa per la presenza di una All Over Again (Johnny
cash) rivoltata come un calzino e trasfigurata in una ballad jazzy e pianistica.
È il prodromo per l'altra cover, la solitaria Hope She'll Be Happier
di Bill Whiters e per la chiusura celestiale con The Miracle,
compresa una lunga coda strumentale. (Fabio Cerbone) |