Neil Diamond - 12 songs Columbia/Sony 2005 1/2
inserito 19/12/2005

Inevitabile, pur con tutti gli sforzi di non risultare banali, spezzare i legami che uniscono questo disco all'ultimo scorcio di carriera di Johnny Cash, non fosse altro che il terzo capitolo dei celebrati American Recordings prendeva a prestito nel titolo proprio la Solitary Man scritta dall'uomo in questione, Neil Diamond. Per troppo tempo, trent'anni almeno, rinchiuso nella sue torre dorata (115 milioni di copie vendute non sono un dato secondario) di performer sopra le righe, ai limiti del kitch, adorato da un pubbico "indistinto", che nella sua pop music edulcorata e senile non ravvisava nulla - e poco gli importava forse - del talento di quel giovane songwriter approdato a New York nei primi anni sessanta. Eppure Neil Diamond un cavallo di razza lo è stato almeno per un decennio: basta scorrere l'elenco infinito di hits scritte in quel periodo per sè e conto terzi, rammentando che dietro I'm a Believer, Solitary Man, Sweet Caroline, Girl You'll Be A Woman Soon, Red Red Wine c'era la sua firma. Rick Rubin, il barbuto produttore dalle infinite risorse, evidentemente non aveva dimenticato questo dettaglio e con lungimiranza ha deciso di compiere un'operazione di "rinascita" che superficialmente si accosta per forza di cose a quella di Johnny Cash. In 12 Songs sono presenti gli stessi musicisti - Mike Campbell e Bemmonth Tench dagli Heartbreakers di Tom Petty - più il redivivo Billy Preston al piano e Smokey Hormel (Tom Waits) alla chitarra; c'è quel suono spolpato, epico e prettamente acustico, che riporta a galla il Neil Diamond folksinger e autore; c'è soprattutto una voce che resta tra le più intense della storia della pop music. Particolari che tuttavia non possono nascondere le abissali differenze di tensione emotiva con The Man in Black, tanto è vero che gli azzardi di certa stampa americana - che ha rispolverato il senso di morte delle ultime registrazioni di Cash - sembrano una forzatura fuori misura. Invero Diamond non ha chiesto questo paragone e tutto ciò non è certamente onesto nei suoi confronti. Una prima parte più folkie e intimista che enfatizza il pathos dell'interpretazione in Hell Yeah e Captain of a Shipwreck, una pop song sotto mentite spoglie acustiche (Save Me a saturday Night), quindi una costante crescita di ambientazioni e arrangiamenti nella seconda parte, con le vette di Delirious Love, I'm On to You (jazzata e notturna, con una sezione fiati) e della soul-oriented Man of God (soprassedendo sul testo), fino alla spensieratezza dei giorni migliori con We. In 12 Songs il songwriting non puà brillare come ai tempi del cosiddetto "Brill Building" newyorchese, se non a sprazzi, ma alcune ballate scaldano davvero il cuore e i suoni hanno un impasto a dir poco mirabile.
(Fabio Cerbone)

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