Inevitabile, pur con tutti gli sforzi di non risultare banali, spezzare
i legami che uniscono questo disco all'ultimo scorcio di carriera di Johnny
Cash, non fosse altro che il terzo capitolo dei celebrati American Recordings
prendeva a prestito nel titolo proprio la Solitary Man scritta dall'uomo
in questione, Neil Diamond. Per troppo tempo, trent'anni almeno,
rinchiuso nella sue torre dorata (115 milioni di copie vendute non sono
un dato secondario) di performer sopra le righe, ai limiti del kitch,
adorato da un pubbico "indistinto", che nella sua pop music
edulcorata e senile non ravvisava nulla - e poco gli importava forse -
del talento di quel giovane songwriter approdato a New York nei primi
anni sessanta. Eppure Neil Diamond un cavallo di razza lo è stato
almeno per un decennio: basta scorrere l'elenco infinito di hits scritte
in quel periodo per sè e conto terzi, rammentando che dietro I'm
a Believer, Solitary Man, Sweet Caroline, Girl You'll Be A Woman Soon,
Red Red Wine c'era la sua firma. Rick Rubin, il barbuto produttore
dalle infinite risorse, evidentemente non aveva dimenticato questo dettaglio
e con lungimiranza ha deciso di compiere un'operazione di "rinascita"
che superficialmente si accosta per forza di cose a quella di Johnny Cash.
In 12 Songs sono presenti gli stessi musicisti - Mike
Campbell e Bemmonth Tench dagli Heartbreakers di Tom Petty
- più il redivivo Billy Preston al piano e Smokey Hormel
(Tom Waits) alla chitarra; c'è quel suono spolpato, epico e prettamente
acustico, che riporta a galla il Neil Diamond folksinger e autore; c'è
soprattutto una voce che resta tra le più intense della storia
della pop music. Particolari che tuttavia non possono nascondere le abissali
differenze di tensione emotiva con The Man in Black, tanto è
vero che gli azzardi di certa stampa americana - che ha rispolverato il
senso di morte delle ultime registrazioni di Cash - sembrano una forzatura
fuori misura. Invero Diamond non ha chiesto questo paragone e tutto ciò
non è certamente onesto nei suoi confronti. Una prima parte più
folkie e intimista che enfatizza il pathos dell'interpretazione in Hell
Yeah e Captain of a Shipwreck, una pop song sotto mentite spoglie
acustiche (Save Me a saturday Night), quindi una costante crescita
di ambientazioni e arrangiamenti nella seconda parte, con le vette di
Delirious Love, I'm On to You (jazzata e notturna, con una
sezione fiati) e della soul-oriented Man of God (soprassedendo
sul testo), fino alla spensieratezza dei giorni migliori con We.
In 12 Songs il songwriting non puà brillare come ai tempi del cosiddetto
"Brill Building" newyorchese, se non a sprazzi, ma alcune ballate
scaldano davvero il cuore e i suoni hanno un impasto a dir poco mirabile.
(Fabio Cerbone)
www.neildiamond.com
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