Ci
sono stati molteplici Joe Henry nel corso di una carriera che inizia
ad acquistare un peso specifico non indifferente: con Tiny Voices
è approdato ormai al suo nono lavoro e quasi si stenta a credere
che quello di oggi sia lo stesso artista che provava ad inseguire le regole
del buon folksinger dylaniano in Murder of Crows. Nel mezzo è passato
un fiume: tra le altre cose ci sono state le fughe country con i Jayhawks
(Short Man's Room, ancora oggi un bell'esempio di vero alt-country), l'eleganza
acustica di Shuffletown (diciamo il capolavoro della giovinezza) e le
sperimentazioni armoniche e ritmiche di Trampoline e Fuse. L'uomo e l'artista
Joe Henry non si sono fermati: era evidente che tutti quei dischi, pur
belli o solo interessanti che fossero, non erano un punto d'arrivo, ma
la ricerca di un linguaggio che doveva ancora rivelarsi in tutte le sue
potenzialità. Scar, erano solo due anni fa, ha risolto molti dubbi
sulla direzione da prendere: Joe Henry è un folksinger moderno,
un narratore di suoni, che ha fatto tesoro delle sue radici folk creandosi
attorno un marchio del tutto personale. Proseguendo idealmente sulle intuizioni
"jazzistiche" di Scar, Tiny Voices affonda ancora di più
nei chiaroscuri delle sue ballate al neon (da sentire la felpata Flesh
and Blood, interpretata anche da Solomon Burke nel recente Don't
Give Up On Me, di cui Henry ha curato la produzione). Non ci
sono francamente appigli particolari nell'attuale panorama cantautorale
americano: il critico vacilla nella sua smania di ricercare una linea
di continuità. Romantico da morire (Animal Skin) e al tempo
stesso ricercato nelle ambientazioni (la stessa Tiny Voices), malinconico
come poteva esserlo il Tom Waits "animale notturno" della fine
dei seventies, non ne possiede tuttavia il trasporto viscerale e l'attegiamento
da maudit. Joe Henry ha trovato, qui più che mai, il suono che
gli girava in testa da anni, ma non parlategli di jazz. Lo ribadisce egli
stesso nelle note di presentazione: nessuna intenzione di inscenare un
"jazz record", semmai di filtrare la sensibilità di musicisti
fuori del comune e farli entrare nella sua casa per vedere cosa poteva
saltar fuori. In Scar erano stati Ornette Coleman, Bred Mehldau e Marc
Ribot, oggi si chiamano Don Byron (clarinetto, sax tenore) e Ron
Miles (tromba), ma il primo attore è sempre lui, che si inventa
atmosfere ovattate e languide (Sold, davvero strepitosa), una batteria
sommessa che sembra suonare nella stanza accanto, mentre piano e chitarra
(bravissimo Chris Bruce) delineano la melodia. Le fughe soliste
sono contenutissime e sia Byron che Miles vengono piegati alla forma canzone
(Lighthouse), in ogni caso al centro del messaggio di un songwriter.
Il quale questa volta ha fatto il miracolo di parlare di rivoluzioni (Windows
of Revolution) e bandiere (Flag) senza necessariamente implicare
la politica: si perchè Joe Henry arriva persino a parlare di Cuba
(This Afternoon), ma il suo baricentro è sempre nell'animo
delle persone, nelle rivoluzioni che scoppiano dentro di loro e che si
riflettono poi verso l'esterno.
Potenza di una musica fascinosa e per niente accomodante.
(Fabio Cerbone)
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