Keith Gattis - Big City Blues Keith Gattis 2003 1/2

 

Interessante ritorno sulle scene di un texano promettente, quel Keith Gattis che nell'ormai lontano 1996 aveva ben impressionato con un omonimo album di spicciolo hard-core country targato Bmg. A giudicare da Big City Blues (risalente al 2002, ma reso disponibile dalle nostre parti soltanto oggi), direi che nei sei anni successivi Keith non è rimasto a girarsi i pollici: anzi, pare che nel frattempo il ragazzo abbia acquisito sicurezza, sfumature, qualità di scrittura e coefficiente rock'n'roll. Per rendersene conto basta ascoltare i tre episodi che inaugurano il disco, dal lowdown ciondolante, sudista e pigramente bluesy della title-track al country-rock anni '70 di Reconsider, fino alla misurata elettrificazione della splendida El Cerrito Place. Quest'ultimo è uno di quei brani tra le cui pieghe s'intuisce sarebbe bastato un nonnulla a strafare; Keith, invece, si dimostra sempre ben attento a non calcare troppo la mano, cosicché la pedal-steel della nostalgica Same To Me lambisce piacevolmente la maniera country senza cedervi del tutto, Down Again sciorina un roots-rock alla maniera dei primi Wilco, debitore della tradizione eppure non succube rispetto a quella, e la conclusiva Somebody Told Me congeda l'ascoltatore con cinque minuti abbondanti di rock ipnotico e impregnato di suggestioni folk. Wish I Had You e Hard On Me, al contrario, sono le tracce più tirate del lotto, chiaramente influenzate dal furore di Tom Petty (oppure, per volare meno alto, di certo Todd Snider), due canzoni eccellenti dove risaltano sopra ogni altra cosa le randellate dell'ex Uncle Tupelo Ken Coomer ai tamburi e le fantastiche svisate elettriche della sei corde di Waddy Watchel, indimenticabile chitarrista, fra gli altri, per Jackson Browne e Warren Zevon. Altre comparsate di lusso riguardano le steel-guitars, talvolta affidate a un Doug Pettibone in momentanea vacanza dalla band di Lucinda Williams, e l'inconfondibile B3 di Rami Jaffee, anch'egli gratificato di licenza da parte del suo abituale datore di lavoro, ovvero Jakob Dylan, ovvero i mai troppo lodati Wallflowers. Paradossalmente, l'unico difettuccio riscontrabile in Big City Blues va ricercato proprio nella presenza di ospiti di simile blasone. Già, perché le 11 canzoni del disco, pur belle quando non bellissime, paiono sempre mancare di un qualche ingrediente fondamentale, che per chi vi scrive potrebbe trovarsi nell'esperienza, nel rodaggio infinito e sui mille palchi consumati da una rock'n'roll band fatta e finita, qualcosa che un'accolita di amici (anche affidabilissimi, come in questo caso) non possono per ovvi motivi garantire. Poco male, in ogni caso: sono convinto che a Keith Gattis, nei prossimi sei anni, il tempo per cercarsi un gruppo fisso non mancherà di certo.
(Gianfranco Callieri)

www.keithgattis.com