Interessante ritorno sulle scene di un texano promettente,
quel Keith Gattis che nell'ormai lontano 1996 aveva ben impressionato
con un omonimo album di spicciolo hard-core country targato Bmg. A giudicare
da Big City Blues (risalente al 2002, ma reso disponibile
dalle nostre parti soltanto oggi), direi che nei sei anni successivi Keith
non è rimasto a girarsi i pollici: anzi, pare che nel frattempo il ragazzo
abbia acquisito sicurezza, sfumature, qualità di scrittura e coefficiente
rock'n'roll. Per rendersene conto basta ascoltare i tre episodi che inaugurano
il disco, dal lowdown ciondolante, sudista e pigramente bluesy della title-track
al country-rock anni '70 di Reconsider, fino alla misurata elettrificazione
della splendida El Cerrito Place. Quest'ultimo è uno di quei brani
tra le cui pieghe s'intuisce sarebbe bastato un nonnulla a strafare; Keith,
invece, si dimostra sempre ben attento a non calcare troppo la mano, cosicché
la pedal-steel della nostalgica Same To Me lambisce piacevolmente
la maniera country senza cedervi del tutto, Down Again sciorina
un roots-rock alla maniera dei primi Wilco, debitore della tradizione
eppure non succube rispetto a quella, e la conclusiva Somebody Told
Me congeda l'ascoltatore con cinque minuti abbondanti di rock ipnotico
e impregnato di suggestioni folk. Wish I Had You e Hard On Me,
al contrario, sono le tracce più tirate del lotto, chiaramente influenzate
dal furore di Tom Petty (oppure, per volare meno alto, di certo Todd Snider),
due canzoni eccellenti dove risaltano sopra ogni altra cosa le randellate
dell'ex Uncle Tupelo Ken Coomer ai tamburi e le fantastiche svisate
elettriche della sei corde di Waddy Watchel, indimenticabile chitarrista,
fra gli altri, per Jackson Browne e Warren Zevon. Altre comparsate di
lusso riguardano le steel-guitars, talvolta affidate a un Doug Pettibone
in momentanea vacanza dalla band di Lucinda Williams, e l'inconfondibile
B3 di Rami Jaffee, anch'egli gratificato di licenza da parte del
suo abituale datore di lavoro, ovvero Jakob Dylan, ovvero i mai troppo
lodati Wallflowers. Paradossalmente, l'unico difettuccio riscontrabile
in Big City Blues va ricercato proprio nella presenza di ospiti di simile
blasone. Già, perché le 11 canzoni del disco, pur belle quando non bellissime,
paiono sempre mancare di un qualche ingrediente fondamentale, che per
chi vi scrive potrebbe trovarsi nell'esperienza, nel rodaggio infinito
e sui mille palchi consumati da una rock'n'roll band fatta e finita, qualcosa
che un'accolita di amici (anche affidabilissimi, come in questo caso)
non possono per ovvi motivi garantire. Poco male, in ogni caso: sono convinto
che a Keith Gattis, nei prossimi sei anni, il tempo per cercarsi un gruppo
fisso non mancherà di certo.
(Gianfranco Callieri)
www.keithgattis.com
|