Neal Casal
Basement Dreams
Glitterhouse 2000



Un po a sorpresa (ma quale sorpresa! Ormai per la Glitterhouse questi scherzetti sono diventati una abitudine...), Basement dreams, disco dall'impronta unplugged, originariamente disponibile solo "mail order", viene oggi lanciato sul mercato, forte molto probabilmente dei grandi attestati ricevuti dalla critca inglese al riguardo. Sul fronte del cd capeggia infatti orgogliosamente lo stick di Mojo (rivista anglosassone bene in vista) che elegge questo informale lavoro del buon Neal Casal come "Americana album of the year 1999". Una bella sponsorizzazione, non c'è che dire, che lascia un tantino perplessi quando invece si piazza il cd nel lettore: davvero ispirata l'idea di richiamare nel titolo un improbabile aggancio con i ben più basilari Basement Tapes di mastro Dylan, quasi a far capire che queste canzoni sono da considerarsi una sorta di rinascita per lo stesso Neal Casal. Registrati lungo un ampio arco di tempo tra il '96 ed il '98 su un otto piste, i ventidue episodi (ci sono però diversi brevi strumentali di passaggio) qui presenti ribadiscono l'estrema prolificità dell'autore, la grazia infinita della sua voce e la sensibilità del suo country rock dai sapori west coastiani, diviso tra i santini di Jackson Browne, Gram Parsons e Neil Young, anche se non aggiungono novità decisive a quanto emerso lungo i suoi dischi ufficiali di studio (a cominciare dal piccolo capolavoro Fade Away Diamond Time). Per questo i Basement Dreams di Neal risultano infine molto meno unitari e centrati rispetto al resto della sua produzione, nonostante, sia ben chiaro, la possibilità di incrociare qualche gemma preziosa lungo l'arco dei loro settanta minuti è evidentemente molto alta. Tra le tante I run and hide, atipica rock-blues song per il repertorio del nostro, con un bel lavoro di slide; la splendida atmosfera old time di Widowmaker, country music nel nome della Carter Family; il country blues rurale di Neal's blues; i sapori gospel di Oil in my lamp; lo spirito parsoniano che aleggia in Nothing left to prove; ed infine un cospicuo carico di ballate folk uggiose e malinconiche, tra cui vale la pena citare No one said a word, Outskirts, Fremont row, Meand queen Sylvia, St. Cloud....Cast di prima qualità (Jim Scott alla produzione, Bob Glaub, Don Heffington e John Ginty tra i musicisti coinvolti) e tanta poesia acustica. Non è un passaggio fondamentale, ma chi ama queste atmosfere e ha già apprezzato il lavoro invìcomiabile di questo giovane talento del New Jersey può andare sul sicuro.

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