Torna al precedente
La prossima scelta
Home page
info@rootshighway.it

   



Solomon Burke
Make It What You Got
[2005]

La scelta di: Gianni Del Savio


Abile nel “rimodellare” tratti personali e leggenda - Peter Guralnick, nell’imperdibile libro Sweet Soul Music, ne tratteggia colori e sfumature -, Solomon Burke (1936 - 2007) è stato uno dei più grandi e influenti interpreti soul-gospel e dintorni. Un po’ di storia. Nei primi ’50 si fa strada a Philadelphia (dove nasce), in chiesa e in programmi radio, guadagnandosi il soprannome di “wonder boy preacher” Dopo alcune incisioni di modesto rilievo, approda all’Atlantic e, nel ’61, si affaccia alle classifiche r&b con Just Out Of Reach, cover di un brano country. Negli studi di New York incrocia il grande compositore/produttore Bert Berns: a partire da Cry To Me (’62), la collaborazione frutta una serie di brani pregevoli. L’anno dopo, alcuni suoi 45 entrano nelle “charts r&b”: tra questi If You Need Me (che Wilson Pickett aveva già proposto, inutilmente, a Jerry Wexler…), il cui retro è la strepitosa You Can Make It If You Try, concentrato gospel-soul-blues; Everybody Needs Somebody To Love (’64) rimane un po’ in ombra (diverrà popolarissima negli ’80 grazie ai Blues Brothers), così come la dolente, autobiografica The Price.

L’esplosione del fenomeno soul gli crea problemi di concorrenza: Otis Redding, Wilson Pickett, James Brown, Joe Tex, tra gli altri, ottengono risultati di vendita migliori, frenandone l’ambizione di venire riconosciuto come “King of Soul”. Ci proverà a pretendere il titolo con King Solomon (immaginario biblico?), penultimo LP (’68) per l’Atlantic, che contiene un paio di gioielli quali Take Me e Baby Please Come Home (ripresa anche dai Led Zeppelin). Lasciata l’etichetta newyorkese, nel ’69, a Muscle Shoals incide il capolavoro Proud Mary, album che, oltre all’omonima song dei Creedance Clearwater Revival, contiene altre cover di rango. Per alcuni anni si mantiene a galla seguendo le tendenze del momento, anche la disco (con la Chess…), in veste “crooner sornione”. Negli ’80 ritrova le sue radici gospel con la Savoy e, sino a fine ‘900, si fa apprezzare per qualche “passaggio” r&b e pop (Rounder e altre), e in qualche concerto (da noi, soprattutto a Porretta Terme). Nel 2002, quando sembra non poter più offrire gli standard qualitativi del passato, Burke ritorna alla grande con l’album Don’t Give Up On Me, grazie a un produttore (Joe Henry), autori e a musicisti di rango, che gravitano in “aree” cantautorali rock e pop.

Tre anni dopo (eccoci finalmente) conferma l’ottimo stato di salute, pescando ancora nel repertorio di singers-songwriters prestigiosi, tra questi Bob Dylan e Van Morrison, già chiamati in causa nella precedente opera. Make Do With What You Got è prodotto da Don Was, che vanta esperienza in campo rock e black: brillante regia che fotografa l’anima del grande soulman, con arrangiamenti, musicisti e coristi di rilievo. Qualche passaggio di mestiere, ma i dieci brani consegnano uno dei migliori prodotti del “soul preacher” afroamericano, con punte qualitative elevate. Apre I Need Your Love In My Life (Coco Montoya), solido rock, dalle coloriture latino-funky-blues: uno scaldamuscoli che prepara all’exploit dell’artista di Philadelphia; seguono il pregevole, introspettivo mid-tempo What Good Am I? (Dylan) - una “tensione climatica” a cui Solomon dà vaghe sfumature gospel -, e il riflessivo, pacato It Makes No Difference (Robbie Robertson).

Al più canonico, interlocutorio Let Somebody Love Me, si fa preferire lo slow blues-soul After All These Years (co-firmato dallo stesso Burke), che fa risalire “l’intensità immaginifica”: segnato dalla tensione autobiografica, sottolineata da un’efficace struttura strumentale, in quasi impercettibile crescendo. La successiva Fading Footsteps ha una più consueta cadenza country, forte di qualche impennata vocale. Altro gioiellino è la slow ballad At The Crossroads, scritta per lui da Van Morrison, suo dichiarato ammiratore (e agli inizi della carriera solista, anche lui aveva avuto a che fare con Berns): un marchio interpretativo che, oltretutto, va a confermare alcune eccellenti “similitudini soul” tra i due. I Got The Blues è il capolavoro dell’album, e lega il nostro a quei Rolling Stones che ai loro esordi incisero Cry To Me e Everybody Needs Somebody. Una splendida song, firmata Jagger-Richards (da Sticky Fingers, LP del ’71, in parte registrato a Muscle Shoals…). L’attacco è quello lancinante, viscerale dell’hammond di Rudy Copeland: clima introduttivo perfetto per la formidabile tensione interpretativa espressa da Solomon, ben supportato anche dagli altri musicisti e dal coro, con passaggi imperdibili, che lo riportano al meglio dei ’60-’70; un’intensità emozionale che potrebbe durare ancora vari minuti, e fa scattare l’impulso di ripeterne immediatamente l’ascolto.

La drammaticità si stempera coi colori e i toni funky di stampo “fatalista-neworleansiano” offerti da Made Do With What You Got (Dr. John). In chiusura arriva l’eccellente Wealth Won’t Save Your Soul: amara constatazione, in forma di ballad a tempo di valzer lento, che arriva dal grande Hank Williams, e ha l’efficacia strutturale per evidenziare altre sfumature interpretative dell’artista afroamericano. E’ tutto, e a conti fatti, è l’ultima grande testimonianza della sua arte.

p.s. Tanti gli album, usciti da vent’anni a questa parte, meritevoli di grande attenzione. Almeno dieci-venti meriterebbero spazio. La “sofferenza di scelta”, oltre a Don’t Give Up On Me, ha portato a sacrificare anche un paio di gioielli di Mavis Staples (soprattutto!), opere di Leyla McCalla, Bettye Lavette, Allen Toussaint e...


    



Prosegui, la scelta di: Nicola Gervasini