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Margo Cilker
Pohorylle
[Fluff & Gravy/Loose music 2021]

Sulla rete: margocilkermusic.com

File Under: country roads

di Fabio Cerbone (01/11/2021)

È una stagione felice per “l’altra metà del cielo” dell’Americana, un tempo di rinascenza per molte giovani voci che guardano alla tradizione country folk e alle sue varianti più o meno elettriche e d’autore. L’ultima a sedersi a tavola, ma già tra le più mature e convincenti, è Margo Cilker da Enterprise, Oregon, duemila anime nel profondo ovest, terra di allevatori da cui lei è partita alla volta del mondo. Sei anni di gavetta nei festival indipendenti, dalla California al salto fuori degli Stati Uniti, approdando persino sulle coste dei Paesi Baschi, poi il ritorno a casa e l’idea di incidere finalmente il suo esordio adulto. Occorreva soltanto qualcuno che ne cogliesse il suono, con cui intendersi d’istinto: l’incontro fatale è avvenuto con la collega Sera Cahoone, che dopo avere ascoltato le prime demo acustiche di Margo, ha accettato senza indugio di produrre il debutto Pohorylle, mettendo insieme una squadra invidiabile di musicisti provenienti dalle scene indipendenti di Seattle e Portland.

Nove tracce, soltanto mezz’ora di musica, come i classici del genere, tutto quello che c’è da dire senza mai sprecare il fiato o uscire dai margini, esaltando le armonie vocali di Margo insieme alla sorella Sarah e la candida naturalezza di una manciata di ballate che raccontano di amore e perdita, attraverso piccole peregrinazioni di vita e paesaggi americani. Gli elementi della natura, il loro ancestrale richiamo, sono essenziali per muovere il songwriting, a cominciare dal manifesto dell’album, That River, dolce cantilena country dove il piano di Jenny Conlee (The Decemberists) fa da timone per l’interpretazione angelica e confessionale di Margo Cilker, per ritornare ciclicamente fra le immagini di Flood Plain, afflitta nel suo romanzo d’amore acustico accompagnato dai languori della pedal steel di Jason Kardong (Sera Cahoone, Son Volt) e dal fiddle di Mirabai Peart (Joanna Newsom).

Sequenze narrative e un baldanzoso taglio sonoro tra southern e honky tonk emergono nell’andatura dinoccolata di Kevin Johnson e della deliziosa Tehachapi (luogo californiano che non saltava alla memoria dai tempi del classico Willin’ dei Little Feat). Quest’ultima si infiamma dei colori della Louisiana grazie alla partecipazione vivace dei fiati e dell’accordion, cedendo poi il passo all’elegia country di Barbed Wire (Belly Crawl), ancora trafitta da una steel guitar che è la quintessenza di uno stile e di un modo di narrare in musica. Ballate tinteggiate di quei toni crepuscolari (Chesters, Wine in the World) e di quei sobbalzi tradizionalisti (Brother Taxman Preacher) che hanno valso a Margo gli immancabili (e spesso un po’ troppo pigri a livello critico) confronti con le eroine Gillian Welch e Lucinda Williams: della prima echeggia una vaga presenza sullo scenario musicale dell’intero disco, della seconda invece manca del tutto la crudezza e la rabbia rock, lasciando semmai pensare alla nobile scuola che da Emmylou Harris approda a colleghe contemporanee di Margo come Courtney Marie Andrews.

Il suono del cuore che letteralmente si spezza in Wine in the World (I wish I had all of the wine in world…) è la riprova di un bel talento, che fa della semplicità dell’immagine e di conseguenza della stessa musica la chiave per entrare nel suo piccolo mondo antico.


    



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