Nonostante
il titolo e nonostante un’allergia agli studi di registrazione entrata
in fase di remissione, a quanto pare, solo in tempi recenti, il nuovo
album di canzoni inedite (neanche il decimo in mezzo secolo di attività)
consegnato alle stampe da Richard Samet Friedman, meglio noto come Kinky
Friedman, non rappresenta una vera e propria resurrezione. Semmai un confortante
segnale di continuità da parte di un autore di canzoni, nonché romanziere,
giornalista, politico di fede repubblicana, poi passato nelle fila degli
indipendenti e oggi sotto l’ala dei democratici (mescolate le suddette
occupazioni secondo il vostro gusto), in passato non proprio regolare
nel condividere col resto del mondo i frutti, sempre arguti, sarcastici
e irriverenti, della sua scrittura tutt’altro che prevedibile.
Tre dischi in quattro anni (tanti ne ha realizzati il nostro dal 2015
di The Loneliest Man I Ever Met) rappresentano infatti per il "Kinkster",
in termini di prolificità, una specie di primato, ma non preoccupatevi
per eventuali cali d’ispirazione o flessioni creative, perché Resurrection
potrebbe addirittura essere il capitolo migliore della trilogia. Parte
del merito, è chiaro, va ascritta alle doti di Larry Campbell,
qui impegnato sia in veste di produttore sia nei panni del musicista,
e in entrambe le configurazioni assolutamente efficace nel conferire risalto,
tono, dinamiche, pulizia e brillantezza al ruvido countreggiare di undici
composizioni nuove dove il genere, lontanissimo dai luoghi comuni e dalle
patinature estetizzanti delle sue versioni più artificiose (del resto,
il Kinkster ha sempre prediletto la compagnia di John Belushi o Iggy Pop
a quella di certi cowboy con microfono di poca sostanza), si riconnette
come se quarant’anni non fossero passati al gesto «da fuorilegge», in
contemporanea rurale e provocatorio, dei vari Kris Kristofferson o Billy
Joe Shaver.
Tuttavia, un’altra fetta di riconoscimenti - quella principale - va attribuita
alla forma strepitosa di Kinky, alla fatica e all’intelligenza della sua
ironia ogni volta predisposta a non sprecare (mai!) una buona battuta,
eppure in ogni caso segnata da una piega amara sul volto, come se le verità
umane, peraltro trattate in tono decisamente antiretorico, non potessero
in fondo prescindere da un filo di malinconia. Così, ecco scorrere, in
sequenza, un’evocazione agrodolce degli anni di prigionia di Nelson Mandela
nel carcere sudafricano di Robben Island (Mandela’s
Blues), brani d’amore sui generis (I Love You When It Rains),
dissertazioni sul proprio ego innaffiate da scrosci di umorismo (Resurrection,
con la seconda voce dell’amico Willie Nelson), panoramiche country-rock
sulla scia dei Flying Burrito Brothers (Greater
Cincinnati, bellissima), nostalgiche rievocazioni di colleghi
da tempo inattivi (Me & Billy Swan, dedicata all’omonimo ex-bassista
di Kristofferson) e addirittura un qualche divertissement di stampo messicano
(Ai! Mariachi!, al solito spassosa).
Le sonorità, in bilico tra ballate agresti e spediti honky-tonk, con una
vena country terragna, spigolosa e anticonformista, sono quelle che abbiamo
imparato a conoscere nelle sue opere precedenti, stavolta, però, confezionate
con un senso dell’equilibrio e una lucidità esecutiva come non si riscontravano
(non è un’esagerazione) dalle stagioni mitiche di Lasso From El Paso
(1976). La bravura di Friedman nell’alternare il valzer antico e sentito
di Carryin’ The Torch alla caciara country-blues della stralunata
Blind Kinky Friedman, in una perenne oscillazione dei toni utile
a non prendersi troppo sul serio, dovrebbe essere fuori discussione. Il
fatto che in Resurrection le sue vignette ricordino spesso, nelle
liriche e nello stile, quelle di John Prine, è solo uno dei numerosi motivi
per fare i conti, ancora una volta, col lavoro di questo settantaquattrenne
nato a Chicago ma presto adottato dal Texas (sul quale potrebbe redigere
un’enciclopedia), malgrado le primavere molto più fresco e vivace di tanti,
presunti giovanotti di belle speranze.