Non
ci si abitua mai all'idea che ci siano ancora in giro, nonostante tutti gli alti
e bassi vissuti dentro le maglie della discografia, personaggi come Steve Forbert.
Forse sono proprio loro, folksinger nati in un'epoca un po' più romantica e costellata
di ingenuità, a ricordarci che per sopravvivere in quel mondo occorrono le canzoni,
uno stile riconoscibile, a volte semplicemente il volerci credere come testardi.
Certo, il risultato è di finire in una nota a piè di pagina, per l'eternità quelli
di "Romeo's Tune" e dei "nuovi Dylan". Forbert festaggia invece quarant'anni
di carriera, piena di ostacoli, di momenti passaggeri di gloria e continue mediazioni
e ripartenze con il music business. Lo fa innanzi tutto con un inatteso libro
di memorie - Big City Cat: My Life In Folk Rock - firmato insieme alla
giornalista Therese Boyd, quindi con una sorta di speciale colonna sonora che
ne accompagna l'uscita, The Magic Tree.
Nel primo caso c'è
da raccontare una storia che parte dal profondo Mississippi, dove Steve è nato,
e arriva fino alle mille luci di New York, nel mezzo di un passaggio storico importante,
quando folk rocker come lui viaggiavano fianco a fianco con la rivoluzione punk,
ma raccontavano l'America da un'altra visuale. Nel secondo rimane invece un disco
di outtake e provini acustici, alcuni risalenti persino alla metà degli anni ottanta
(l'inizio del periodo più buio e combattutto per Steve), e che dovevano fare da
contorno alla biografia, ma sono capitate nelle mani del produttore giusto, Karl
Derfler (ingegnere del suono che ha lavorato spesso con Tom Waits), il quale le
ha infine modellate con nuovi musicisti e un sound di studio in grado di offrirre
loro la veste di un disco vero e proprio. E così The Magic Tree si trasforma probabilmente
nel lavoro più ispirato e coerente pubblicato da Forbert da molto tempo a questa
parte, con la title track e il suo docile languore folk rock proposta persino
in due versioni, a ragionare sulla vita, sull'amore, anche sulla malattia che
ha colto di recente Forbert, e naturalmente sulle occasioni colte e perdute.
Considerata
l'ondivaga carriera dagli anni Duemila in poi, con album finiti troppo presto
nel dimenticatoio, è davvero un piacere riscoprire Forbert e la sua voce increspata
a rintuzzare quella mescolanza elettro-acustica di melodia sbarazzina e tradizione
che sospinge episodi come That's Be Alright e
Let's Get High (poteva essere un buon singolo ai tempi di Jackrabbit Slim,
anno di grazia 1979), alternati a momenti più intimi dove il carattere nostalgico
e agrodolce del songwriter prende il sopravvento (Tryna Let It Go, il sobbalzare
placido di Lookin' at the River in The Rain
e il finale a passo di walzer country di The Music of the Night), fino
a seccarsi in sola voce e chitarra, a ramengo come il folksinger che egli resta
nel cuore, in Movin' Through America.