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Ry for president! di
Pie Cantoni (17/05/2018)
Di
veri attivisti ormai non ne sono rimasti molti. Quelli duri e puri che sono dalla
parte degli ultimi, che combattono, per quelli senza assistenza sociale, che subiscono
i torti delle grandi aziende petrolchimiche, che vivono un'esistenza dura, magari
immigrati illegali dal Messico in cerca di una vita più libera e senza muri che
li possano contenere. Grazie al cielo Ry Cooder, forse l'artista meglio
invecchiato della sua generazione, non se ne dimentica. Se con il precedente,
già notevole Election
Special si era scagliato contro il governo
americano, i crack finanziari, il partito repubblicano, con questo nuovo The
Prodigal Son guarda al passato per capire il presente. L'oggi è incerto
e Ry lo sa bene, e in questo disco si fa forte della sua esperienza di musicologo
e usa la voce di Blind Willie Johnson, dei Pilgrim Travelers e di tanti autori
più o meno conosciuti per dare la sua visione dell'America odierna.
Forse
il brano che spiega e dà un senso circolare alla carriera di Ry è Jesus
and Woody, dove racconta come questi filosofi ribelli - che chiedevano
terra libera per chi la volesse coltivare, che amavano i peccatori, che stavano
sempre dalla parte degli ultimi - vengono definiti sognatori. E se guardiamo in
restrospettiva alla produzione del chitarrista di Santa Monica, la canzone assume
un tono "a tre", più che "a due". E da qui si parte. I temi di The Prodigal Son
sono quelli che Ry ha sempre trattato nei suoi dischi d'esordio. Agli inizi li
affrontava più come tributo nei confronti dei maestri e rivisitazione in chiave
moderna. Ora, con settanta e passa primavere alle spalle, vede quegli stessi brani
in una luce di rilettura critica della società di oggi. Cambieranno i nomi dei
presidenti, cambieranno il nome degli oppressi (non più Okie e neri, ma blue collars
e latinos, ad esempio), ma la sostanza rimane la stessa.
Cent'anni ci
separano dalla nascita di alcune delle canzoni in tracklist, ma poco importa.
E questo la dice lunga sull'evoluzione dell'uomo e della società. Ry Cooder mescola
tutte le sue innumerevoli anime ed esperienze accumulate in cinquanta e più anni
di musica per ridarci un suo genere personalissimo e indistinto (blues? musica
mariachi? rock? gospel?) che, come i grandi blend, migliora col tempo. Si sentono
lontani echi del disco d'esordio, di Paris, Texas, di tutti i suoi esperimenti
musicali con il Buena Vista Social Club, con Flaco Jimenez o con i musicisti africani,
ma allo stesso tempo questo disco è musicalmente superiore perché, per certi versi,
è come paragonare (con il dovuto rispetto) il vocabolario alla Divina Commedia.
Accompagnato dal figlio e batterista Joachim Cooder, il chitarrista californiano
affronta undici brani, tre originali e otto cover. Il gospel dei Pilgrim Travelers
di Straight Street è il brano di partenza,
dove il mandolino di Ry richiama Brother is Gone dal precedente disco. Pura poesia
in note, di un'intensità inarrivabile, e dove si sente forse per l'ultima volta
su un disco di Coode, la voce di Terry Evans. La prima traccia originale
è lo shuffle vivace di Shrinking Man, a cui fa seguito Gentrification.
Inutile dire che la critica politica e l'analisi arguta del mondo attuale la fanno
da padrone. La seconda canzone però ha una marcia un più in quanto mischia elementi
di musica africana in maniera così naturale e spontanea da non rendersene nemmeno
conto.
Da qui in poi il viaggio è un piacere. Everybody
Ought to Treat a Stranger Right, del tanto amato Blind Willie Johnson,
ovviamente è come se fosse scritta ieri per Donald Trump e per tutti i nazional-populisti
che purtroppo sembrano crescere come i funghi, da un lato e dall'altro dell'oceano.
La traccia che dà il titolo all'album, Prodigal Son, è un traditional.
Inizia con un classico moanin' blues per poi aprirsi in un ritmo rock sostenuto
in cui l'intesa fra Cooder padre e figlio e l'alchimia che creano è trascinante.
La rendition di Nobody's Fault But Mine sarebbe
l'ennesima versione, se non fosse che l'artista californiano ci mette del suo
nel testo e nella musica, trasformandola in cinque minuti di atmosfere sonore
cariche di gravità e intensità. You Must Unload di Alfred Reed (che era
presente anche nel primo disco di Ry, con la cover di How Can a Poor Man Stand
Such Times and Live?) continua nel solco del gospel, così come I'll
Be Rested When the Roll is Called, qui però in maniera meno ossequiosa
e più imbastardita dalle anime musicali di Ryland Peter Cooder. Giusto citare
infine la bellezza di Harbor of Love e la
conclusiva In His Care, che si avvicina più
ai dischi di fine anni 2000 dell'artista, chiudendo con le note di slide che tanto
ci hanno fatto amare e ci faranno amare ancora questo stupendo chitarrista e musicologo
californiano.
Commentando il nuovo disco, Ry Cooder ha detto che collega
la dimensione politica e quella economica con la vita interiore delle persone,
dato che le persone sono a rischio e oppresse sia dalla politica che dall'economia.
Se non fosse che queste parole vengono da un musicista, saremmo tentati di votarlo
alle prossime elezioni. Ry for President!