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Steve Earle & The Dukes
J.T.
[New West 2021]

Sulla rete: steveearle.com

File Under: storie di fantasmi

di Gianfranco Callieri (15/01/2021)

* uscita digitale 04/01/2021 - in cd/vinile dal 19/03/2021

Quanti fantasmi, in questo disco. Quanta empatia, certo, quanto spessore umano, quanta capacità di entrare nel cuore, negli estremi, nella sofferenza e nel disastro di un’esistenza troncata troppo in fretta; quanta capacità nel trasmettere tutto ciò, senza forzature e, anzi, con straordinaria naturalezza, persino all’ascoltatore più distratto. Lo spettro più ingombrante, com’è ovvio, è quello del primogenito Justin Townes Earle (da cui le iniziali del titolo), figlio di Steve Earle morto trentottene, a Nashville, Tn., lo scorso venti agosto, per un’overdose di cocaina. Poi ci sono gli spettri di Townes Van Zandt e Guy Clark, il primo addirittura evocato dal secondo nome del discendente scomparso, entrambi già oggetto, da parte di Earle Senior, di due album costituiti per intero da rivisitazioni del loro repertorio, con questo J.T. nel ruolo, ingrato, di terzo lavoro dal suo artefice concepito in forma di omaggio a chi non c’è più.

Altri fantasmi vengono alla mente, per affinità stilistica e non solo (dall’intero cast di “comprimari” del mai dimenticato Heartworn Highways [1981], dove un Earle giovanissimo riconosceva il proprio debito d’ispirazione nei confronti della canzone d’autore texana, a tutte le rivoluzioni, soprattutto personali, nel frattempo fallite), ma l’ultimo e più importante fantasma a comparirci davanti agli occhi è proprio lui, Steve Earle, non si sa come sopravvissuto alla morte di un figlio, alla propria compulsione autodistruttiva, alle stagioni della droga, alla dissoluzione dell’industria discografica e a molto altro ancora. Ma Earle, non c’è dubbio, è davvero un fantasma, e lo è anche nel modo in cui affronta il sovraccarico di traumi appena descritto, ossia continuando a fare dischi nell’unico modo col quale sa farli. Per se stesso. Perché cos’altro è, in fondo, l’atto del confezionare un album, o un film, o un libro, se non l’espressione del bisogno di un esorcismo, di una catarsi, di una qualche restituzione di senso nel contesto di un mondo dove affetti e certezze vanno inesorabilmente sbriciolandosi?

Il portato emotivo di J.T. può interessare o non interessare, non è questo il punto. Forse la cosa più toccante dell’intera operazione sono le note del press-kit, nelle quali Earle si sofferma su quanto lui e il figlio avessero in comune, malgrado le difficoltà dell’infanzia del secondo e assidui allontanamenti reciproci, e rammenta di come lo chiamasse, da piccolo, «cowboy», concludendo infine il discorso con un commosso, «Ci vedremo quando arriverò là, cowboy. Papà». Eppure, a essere toccante e rassicurante, in un certo senso, è anche la sopravvivenza del fantasma di Steve Earle, che l’anno scorso, dopo una serie di dischi francamente inficiati dall’eccesso di maniera, è a dir poco rinato grazie alla sanguinosa cronaca sociale del brusco Ghosts Of West Virginia, sulla tragedia mineraria colpevole di aver tolto la vita, nel 2010, a trenta operai/fantasmi (di nuovo), e oggi affronta il fantasma del figlio defunto piegandone il repertorio alle proprie esigenze e al proprio stile, scongiurando in partenza il rischio del pezzo di bravura da approvare “a prescindere”, magari rispettabilissimo nelle premesse ma arido nei risultati, con una fame di vita in grado di resuscitare (appunto) 65 primavere di dolore, cause perse, strade sbagliate.

In J.T., i cui proventi andranno al fondo istituito per consentire a Etta St. James Earle, figlia unica di Justin Townes, di raggiungere la maggiore età senza eccessive preoccupazioni economiche, non troverete traccia, se non in filigrana, del modernariato rootsy, spesso volutamente distratto e (auto)ironico, appartenuto all’erede di Steve; troverete invece uno Steve Earle più “earliano” che mai, con i Dukes mai così in parte da anni (Eleanor Whitmore al violino saprebbe spaccare di pianto una parete rocciosa), e una voglia di mordere canzoni, ricordi e sensazioni attraverso una caustica dichiarazione di indipendenza. Nell’honky-tonk swingante dell’iniziale I Don’t Care o di Champagne Corolla, un pizzico della vena rétro di JT viene mantenuta, sì, ma i modi e i tempi dell’esposizione pungono, sbuffano, graffiano. Ecco, così, l’archetipo country-soul di Maria tramutarsi in una frustata ai confini del rock sudista, Far Away In Another Town e Turn Out My Lights diventare ballate elettriche all’insegna di un realismo esasperato (attenzione alle bacchette di Brad Pemberton, splendide nel donare inequivocabili vibrazioni rockiste al più rarefatto dei commiati), Harlem River Blues farsi folk-rock disidratato dal vento e dalla polvere (ma con un superbo coro finale, aperto al mondo e alle nuove gioie, che non può non ricordare un altro fantasma, e cioè Jerry Jeff Walker ai tempi degli Armadillo World Headquarters).

Anche Lone Pine Hill viene stravolta in un sibilo di rabbia e rimpianto, mentre The Saint Of Lost Causes resta piuttosto fedele al prototipo sebbene ne esasperi l’intensità in cinque minuti e rotti di spremitura del sangue, dell’anima e delle viscere di chi la sta interpretando. Colui che chiude l’opera col congedo — unica occasione autografa — della devastante Last Words, parole ultime davvero, estreme, definitive di un «addio» pugnalato dal dobro di Ricky Ray Jackson, di una ballata uguale a cento altre del suo autore e ciò nonostante in grado di bruciare e far male più di tutte loro messe assieme.

Non so se, tramite J.T., Steve Earle sia riuscito a congedarsi da suo figlio nella maniera desiderata. Una cosa, però, la so per certo: questo è l’ennesimo disco di Steve Earle — l’ennesimo viaggio a occhi aperti e cicatrici pulsanti nel territorio del lutto, del dolore, della parola, del suono e degli affetti — che non possiamo fare a meno di ascoltare, e ascoltare di nuovo.


    

 


<Credits>