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Julien Baker
Little Oblivions
[Matador 2021]

Sulla rete: julienbaker.com

File Under: Relative Fiction


di Nicola Gervasini (23/03/2021)

La prima volta che ho sentito Julien Baker era il 2016, era una delle artiste che omaggiava Elliott Smith nel disco tributo Say Yes!, e la sua versione di Ballad of Big Nothing colpiva subito per espressività, pur nella sua semplicità di arrangiamenti. L’anno prima era uscito il suo album di debutto, Sprained Ankle, disco che grazie ad un forte passaparola era diventato uno dei titoli più importanti dell’annata. Complimenti le erano arrivati da mondi di ascoltatori anche molto diversi tra loro, e bene o male il secondo capitolo Turn Out The Lights confermava il suo stile semplice ma intenso, senza troppi orpelli in sede di arrangiamento. Ma Little Oblivions, fin dall’iniziale Hardline, fa capire che è tempo di svolte.

La Baker viene da una lunga pausa di riflessione, durante la quale ha comunque trovato tempo per qualche collaborazione, ma in cui si è dovuta anche riprendere dai guai della depressione, con conseguenti problemi di dipendenza da farmaci. Un elemento importante per capire come mai dallo scarno sound dei suoi primi album, si passa a questo vero e proprio muro di tastiere e chitarre che lascerebbero intendere l’apertura a svariate collaborazioni in studio, se non fosse che lei resta invece l’unica musicista presente, eccezion fatta per qualche intervento (anche strumentale) in post-produzione dell’ingegnere del suono Calvin Lauber. È probabile che la Baker abbia ritenuto queste dodici canzoni fin troppo dolorosamente personali anche solo per condividerle con altre sensibilità musicali, ma è innegabile che il risultato appaia ancor più strabiliante se pensato come il risultato del lavoro di una one-woman-band.

E forse anche involontariamente il disco ha la struttura di un concept album, che da riflessioni sulle proprie difficoltà a venire a patti con il mondo che la circonda e le proprie debolezze (Heatwave, Relative Fiction), si apre sempre più a riflessioni sul modo in cui la gente si relaziona con chi come lei mostra evidenti difficoltà (Favor, Song of E). Quasi che la Baker abbia voluto farci provare il suo percorso, che dal fondo toccato e ben raccontato nella parte centrale dell’album (dalla pessimistica visione dell’amore come possibile ancora di salvezza di Bloodshot ai non troppo velati accenni all’autolesionismo della stessa canzone e di Ringside) abbia comunque voluto chiudere il disco con qualche spiraglio di ottimismo.

Unica osservazione che mi permetto di fare è che da un punto di vista stilistico questa nuova veste da pop etereo che abbandona con decisione gli elementi folk (il piano sostituisce la chitarra acustica come elemento base) finisce un po’ per farla confondere con altre artiste contemporanee che si muovono sullo stesso terreno (Angel Olsen, ma anche l’ultima fatica di Laura Veirs è assimilabile per i suoni), ma sono forse sottigliezze che per ora spariscono davanti ad un disco che mostra come ancora si possa usare la musica come terapia, con la triste constatazione che non siamo ma veramente gli unici a vivere nel dolore (gli ultimi versi del disco sono “Sono rimasta delusa nello scoprire quanto tutti mi assomiglino”).


    


<Credits>