Ty Segall
Freedom's Goblin
[
Drag City
2018]

tysegall.bandcamp.com

File Under: di esilii e strade maestre

di Yuri Susanna (11/02/2017)

Ho seguito in modo abbastanza erratico e superficiale, lo confesso, la logorrea produttiva di questo biondo californiano, questo eroe del secondo (terzo? quarto? ho perso il conto...) garage-rock revival dell'ultimo decennio, considerandolo al più una specie di compagno di merende dei più ortodossi ma altrettanto prolifici Thee Oh Sees. Non che non abbia apprezzato in diversi momenti le intuizioni con cui, nelle sue varie incarnazioni, Ty Segall ha sfogato una naturale propensione enciclopedica a riassumere cinquant'anni di distorsioni a bassa fedeltà e chincaglieria psichedelica, ma anche nei suoi lavori più ispirati e universalmente bene accolti (direi a naso Twins, 2012 e Manipulator, 2014) qualche tassello fuori posto non si faceva fatica a trovarlo, una certa propensione a farsi prendere la mano lo rendeva alla lunga ostico a chi non fosse un fanatico adepto del genere. Insomma, mi ero fatto l'idea che Segall sarebbe rimasto una promessa ad aeternum, un talento incompiuto.

Freedom's Goblin, a dispetto di una grafica di copertina che si direbbe ideata da un adolescente strafatto, giunge a far ricredere gli scettici e convertire gli atei: mai prima la caleidoscopica visione di Segall era risultata tanto a fuoco, producendo 19 tasselli di un calibrato omaggio all'ethos e all'epos rock (senza dimenticare il pathos) che partendo dai garage dei Sixties abbraccia gli ancheggiamenti del glam (My Lady's on Fire), la psichedelia folkeggiante post-beatlesiana (Cry Cry Cry, I'm Free), lo stoner sabbathiano (She) e zeppeliniano (Alta), il funk e il soul lascivo degli Stones (rispettivamente Despoiler of Cadaver, con tanto di falsetto à la Jagger, e i singulti da Sticky Fingers di Fanny Dog). E se ciò non basta a stuzzicarvi, c'è la mano di Steve Albini dietro le manopole, c'è la chitarra di Emmett Kelly a stimolare le improvvisazioni jammate che trascinano l'album verso traiettorie acidamente californiane, c'è l'ombra del solito Mikal Kronin che si divide tra basso, arrangiamenti e supporti vocali, c'è una sezione fiati che sostiene e invigorisce le idee del leader, imbrigliandone la scrittura in una forma meno indulgente e più godibile anche da chi si stanca presto della bassa fedeltà. Ci sono anche, a conciliare gli opposti, tracce sparse di free funk di derivazione no-wave (Talking 3) e la cover che non ti aspetti di un classico della disco music (Every 1's a Winner degli Hot Chocolate), riletta come neanche Jack White. Tutto questo senza dare mai l'idea di strafare.

Sarà l'astinenza indotta da questi tempi poveri di chitarre e musica rumorosa (in senso buono, ci siamo capiti), sarà l'affetto che non si può non provare per chi immola la sua vita artistica a una forma espressiva data per morta dai più, sarà che l'idea del disco doppio (nella versione in vinile) ci dà ancora qualche ancestrale fremito ma, lasciata decantare nell'aria l'ultima nota della cavalcata finale di And, Goodnight (Neil Young se la ride sornione), si rimane come inebetiti dal miracolo di avere assistito a una specie di messa laica di celebrazione del buon vecchio rock. Che è diverso dal dire "rock vecchio", se mi intendete. Senza voler scomodare i santi, Freedom's Goblin è la cosa più simile - nello spirito, se non nella lettera - all'ascolto di un Exile on Main Street che ci sia data di sperimentare, oggi come oggi.


    


<Credits>