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di esilii e strade maestre di
Yuri Susanna (11/02/2017)
Ho seguito in modo abbastanza erratico e superficiale, lo confesso, la logorrea
produttiva di questo biondo californiano, questo eroe del secondo (terzo? quarto?
ho perso il conto...) garage-rock revival dell'ultimo decennio, considerandolo
al più una specie di compagno di merende dei più ortodossi ma altrettanto prolifici
Thee Oh Sees. Non che non abbia apprezzato in diversi momenti le intuizioni con
cui, nelle sue varie incarnazioni, Ty Segall ha sfogato una naturale propensione
enciclopedica a riassumere cinquant'anni di distorsioni a bassa fedeltà e chincaglieria
psichedelica, ma anche nei suoi lavori più ispirati e universalmente bene accolti
(direi a naso Twins, 2012 e Manipulator, 2014) qualche tassello fuori posto non
si faceva fatica a trovarlo, una certa propensione a farsi prendere la mano lo
rendeva alla lunga ostico a chi non fosse un fanatico adepto del genere. Insomma,
mi ero fatto l'idea che Segall sarebbe rimasto una promessa ad aeternum, un talento
incompiuto.
Freedom's Goblin, a dispetto di una grafica
di copertina che si direbbe ideata da un adolescente strafatto, giunge a far ricredere
gli scettici e convertire gli atei: mai prima la caleidoscopica visione di Segall
era risultata tanto a fuoco, producendo 19 tasselli di un calibrato omaggio all'ethos
e all'epos rock (senza dimenticare il pathos) che partendo dai garage dei Sixties
abbraccia gli ancheggiamenti del glam (My Lady's on Fire),
la psichedelia folkeggiante post-beatlesiana (Cry Cry Cry, I'm
Free), lo stoner sabbathiano (She) e zeppeliniano (Alta),
il funk e il soul lascivo degli Stones (rispettivamente Despoiler
of Cadaver, con tanto di falsetto à la Jagger, e i singulti da Sticky
Fingers di Fanny Dog). E se ciò non basta a stuzzicarvi, c'è la mano di
Steve Albini dietro le manopole, c'è la chitarra di Emmett Kelly a stimolare
le improvvisazioni jammate che trascinano l'album verso traiettorie acidamente
californiane, c'è l'ombra del solito Mikal Kronin che si divide tra basso, arrangiamenti
e supporti vocali, c'è una sezione fiati che sostiene e invigorisce le idee del
leader, imbrigliandone la scrittura in una forma meno indulgente e più godibile
anche da chi si stanca presto della bassa fedeltà. Ci sono anche, a conciliare
gli opposti, tracce sparse di free funk di derivazione no-wave (Talking 3)
e la cover che non ti aspetti di un classico della disco music (Every
1's a Winner degli Hot Chocolate), riletta come neanche Jack White.
Tutto questo senza dare mai l'idea di strafare.
Sarà l'astinenza indotta
da questi tempi poveri di chitarre e musica rumorosa (in senso buono, ci siamo
capiti), sarà l'affetto che non si può non provare per chi immola la sua vita
artistica a una forma espressiva data per morta dai più, sarà che l'idea del disco
doppio (nella versione in vinile) ci dà ancora qualche ancestrale fremito ma,
lasciata decantare nell'aria l'ultima nota della cavalcata finale di And,
Goodnight (Neil Young se la ride sornione), si rimane come inebetiti
dal miracolo di avere assistito a una specie di messa laica di celebrazione del
buon vecchio rock. Che è diverso dal dire "rock vecchio", se mi intendete. Senza
voler scomodare i santi, Freedom's Goblin è la cosa più simile - nello spirito,
se non nella lettera - all'ascolto di un Exile on Main Street che ci sia data
di sperimentare, oggi come oggi.