Angel Olsen
My Woman
[
Jagjaguwar
2016]

www.angelolsen.com

File Under: indie divas

di Fabio Cerbone (05/12/2016)

Nella scelta dei primi due "singoli", accompagnati da altrettanti video (curati appositamente dall'artista) si esprime la dualità musicale di Angel Olsen: dalle trame quasi impalpabili l'apripista Intern, un pop vellutato e sostenuto dai soli sintetizzatori; un nervoso rock dalle venature grunge Shut Up Kiss Me. Su questa dicotomia e più in generale sugli umori espressi dalle liriche e dalla voce della Olsen si fonda il fascino del suo quarto disco, secondo per la Jagjaguwar, My Woman, indiscutibilmente il lavoro che l'ha posizionata al centro dell'attenzione critica e quello che le ha anche aperto le porte di un pubblico più vasto. Se gli esordi, infatti, erano stati all'insegna di un folk a bassa fedeltà, che rifletteva i contrasti fra le sue origini rurali (nata a St. Louis, poi trasferitasi in North Carolina), l'esordio "adulto" di Burn Your Fire for No Witness aveva già fatto intuire un percorso di maturazione e ampliamento delle sue composizioni.

Difficile pensare oggi ad Angela Olsen come a quella timida folksinger che accompagnava la combriccola di Bonnie Prince Billy, palestra attraverso la quale ha preso coscienza delle sue qualità di autrice. My Woman è un disco spavaldo fin nel titolo e nella concezione, un ciclo di canzoni che a detta della stessa autrice cerca di affrontare il suo ruolo di donna e i contrasti fra dolore e speranza, fra sofferenza e riscatto di una giovane ragazza. Tutto ciò si riflette in un album a due facce, ed è Angel Olsen in persona a presentarlo in tale modo: meglio dunque nel formato in vinile, con due lati che esprimono sentimenti contrastanti. La prima parte è quella più sfacciata ed elettrica, che scivola dal dream pop della citata Intern verso i riverberi e le melodie sixties di Never Be Mine, un rock'n'roll tutto fremiti e nervi in Give It Up e Not Gonna Kill You, in cui elementi post punk e pop attingono a figure come Liz Phair (quanto meno quella esplosiva di Exile in Guyville) e sembrano rileggerle in una chiave più mainstream, come se la nostra Angela volesse diventare la Stevie Nicks dell'indie rock contemporaneo.

È la voce e lo stile a rendere naturale questo accostamento, passando nello stesso brano da momenti eterei a schiaffi rabbiosi, un timbro che può spesso mettere a disagio e apparire persino monotono, ma si amalgama alla perfezione con la pasta sonora del quintetto che la accompagna, sotto l'egida del produttore Justin Raisen. Come anticipato la seconda ideale facciata ribalta la situazione, immergendosi in tonalità riflessive e dilatate, stralci di psichedelia e latargico folk rock, che non possono non scomodare, anche da lontano, colleghe come Hope Sandoval. Accade nella languida, quasi jazzy Those Were the Days, ma soprattutto nell'accoppiata di Sister e Woman, speculari ballate anche nella durata, che calcano la mano sull'eco distante delle chitarre e il dialogo di queste ultime con la vocalità esibita di Angela Olsen, ottenendo risultati a dir poco affascinanti.

Con un approccio eccentrico e classico al tempo stesso, My Woman è un raro esempio di cantautorato indie - come accadde nella scorsa stagione per la collega Courtney Barnett - che riesce a progredire verso l'incontro con la tradizione rock, senza per questo apparire come un "tradimento".


    


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