Damien Jurado
Visions of Us on the Land
[
Secretly Canadian/ Goodfellas
2016]

www.damienjurado.com

File Under: "Visioni" d'autore e non

di Gianfranco Callieri (05/04/2016)

Damien Jurado, sbucato da Seattle ormai una ventina di anni fa, è un artista di lunga data, molto legato alla "sua" America, di cui racconta ancora una volta visioni, personaggi e scenografie da una prospettiva per nulla convenzionale, e nello stesso tempo viaggiatore inveterato attraverso luoghi e sentimenti. Rispetto alla stragrande maggioranza della critica, o anche di chi scrive assieme a me su queste colonne (digitali), ho fatto molta fatica a digerire il suo passaggio dal ruolo di cantautore intimista, sobrio e misurato (quello ancora oggi toccante di album quali l'esordio Waters Ave S [1997] o i successivi Reharsals For Departure [1999] e Ghost Of David [2000], più dolente il primo, più movimentato il secondo, entrambi magnifici), alla parte del collezionista di epigrammi all'insegna di continue deviazioni linguistiche, tanto eccentriche quanto caratterizzate da un eccesso di indulgenza.

Questa fase, all'incirca inaugurata dagli svolazzi pop di Saint Bartlett, trova oggi compimento (o definitiva tracimazione, fate voi) in Visions Of Us On The Land, album lungo, frammentario, contraddittorio, pieno di improvvise epifanie e cambi di tono, nonché terza parte di una trilogia, dedicata a non si sa cosa (l'interessato parla di "sogni" e "realtà parallele"), composta anche dai precedenti, altrettanto faticosi ma meglio compiuti, Maraqopa e Brothers And Sisters Of The Eternal Son. Racchiuso in una copertina ancor più enigmatica del solito, dove un tricheco in pietra troneggia tra acque montanti, nubi minacciose, macchine in panne e astronavi, l'album, con i suoi diciassette brani, si presenta come il più lungo fra i tredici sinora pubblicati dal musicista, quasi un universo personale fatto di vere e proprie cianfrusaglie (l'introduzione da western all'italiana di November 20 o dell'incomprensibile QACHINA), oppiacee nebbie folkie (On The Land Blues potrebbe sembrare un pezzo dei Fleet Foxes), autocitazioni, divagazioni psichedeliche (Sam And Davy), musica latina (ONALASKA) e molto altro.

Dal realismo assai concreto dei primi passi, Jurado è approdato a un caleidoscopio di intuizioni, sovente impacchettate nel riverbero d'altri tempi imposto un po' ovunque dal produttore Richard Swift (Foxygen, Shins, Tennis), il cui eclettismo appare soprattutto preoccupato di mettere in scena se stesso e poco altro, in questo modo tagliando fuori l'asciuttezza, la durezza e l'assenza di fronzoli un tempo impiegate dal titolare per fare i conti con la propria vocazione artistica e ritrovarsi sul pentagramma (oppure perdersi, ma in fondo è la stessa cosa). Il perenne rimescolarsi degli stili e delle soluzioni, in grado di passare dal passo danzereccio di Walrus alle ondate di synth della pomposa A.M. A.M., dal pestaggio ritmico dell'isterica Mellow Blue Polka Dot alle cacofonie pop-rock di TAQOMA, finisce tuttavia per smarrire lungo la strada l'intensità emotiva della narrazione, alla quale si fa ritorno solo nei pressi del trittico conclusivo, quando Queen Anne, Orphans In The Key Of E e la malinconica, quasi springsteeniana Kola, recuperano la refrattarietà all'abbellimento e al dettaglio consolatorio del Jurado più sofferto.

Nessuno, ovviamente, mette in discussione l'opportunità, da parte di Jurado, di costruire i propri lavori come una stratificazione di svisate psych, carrozzeria sonora da telefilm degli anni '50, folk-rock stralunato, gospel e chi più ne ha più ne aggiunga. Il continuo oscillare tra atmosfere differenti di Visions Of Us On The Land, però, ha l'effetto di disorientare ma non quello di stregare, e il suo incessante surrogare paradigmi estetici anche estremamente eterogenei, a fine corsa lascia soprattutto addosso la nostalgia di altre, forse più canoniche traiettorie d'ascolto.


    


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