Terzo incontro con la musica di Matteo Crema, in arte Staggerman, che compie
un percorso discografico lungo quasi dieci anni, tanto è passato dall'esordio
Tiny, Tiny, Tiny del 2009. Ci eravamo già segnati il suo nome sul taccuino di
RootsHighway, a più riprese protagonista di un interessante produzione sia come
membro dei progetti The Union Freego e Bogartz, sia, appunto, sotto lo psedonimo
di Staggerman, veicolo per le sue composizioni tra reminiscenze indie rock e radici
da folksinger. Hobos and Gentlemen è il primo album che lo vede
condividere le note di copertina con una band vera e propria, The Hobo's Amen,
sintomo di un lavoro nato dalla massima collaborazione con i musicisti, una band
di sei elementi che vede spiccare il piano di Marco Monopoli, i fiati di Fabrizio
Delvecchio e una sezione ritmica ormai collaudata, insieme a Lorenzo Colosio (batteria)
e Salvatore Lentini (basso).
Le differenza è evidente, seppure già l'ottimo
Don't Be Afraid and Trust Me, ormai risalente a sei anni fa, metteva in luce una
maturazione del linguaggio di Staggerman, avvolto dai più marginali e intensi
linguaggi del folk rock e del blues americano, riletti in una visione in chiaroscuro,
a tratti psichedelica. Hobos and Gentleman parte da quelle fondamenta per evolvere
in un rock a tinte buie e dagli accenti desertici, arrangiato spesso con l'utilizzo
di una sezione fiati che sembra spostare il baricentro verso un western soul dal
carattere misterioso. La matrice di Strawberry Eyed
e The Leech, brani d'apertura che simboleggiano l'anima del disco, pare
attingere all'esperienza dei Bad Seeds di Nick Cave, seppure in una chiave più
dimessa: anche i testi affrontano luoghi oscuri e l'impressione è che vi sia una
fascinazione per certo immaginario da America desolata, anche nelle trame rock
più moderne di How's Things Going.
La voce di Staggerman è una
cantilena delicata, che si dilata in forma di ballata con Gone
Chance e affronta una sua forma di blues in Ghosts, mantenendo
Hobos and Gentleman dentro i binari di un intenso rock di frontiera. Colpiscono
in particolare la classicità sixties della melodia di Towards
the Fence, ballata a tempo di folk rock per chitarre e tastiere, anche
qui colorata con intelligenza dalla presenza dei fiati, così come l'accoppiata
di acidi blues di Opposite Sides, letargica e in minore, e Rabid Dog,
più incalzante e con una slide guitar in bella mostra, che ricordano l'esperienza
dei misconosciuti Come di Thalia Zedek e Chris Brokaw. Il finale con The
Fall sembra fare ritorno alla grande strada maestra delle roots americane,
con la coralità del canto e l'asprezza della resonator guitar che evocano i migliori
paesaggi dell'alternative country più malinconico e struggente.