Il palermitano
Gioele Valenti può essere considerato un veterano della cosiddetta scena neo-psichedelica
(all'attivo esperienze con band come JuJu, Josefin Ohrn, Lay Llamas), ma ora con
il nickname di Herself prova la carta solista con l'album Rigel Playground.
Un disco molto interessante, realizzato in totale solitudine da polistrumentista,
ma con un suono reso pieno dagli intrecci di tastiere e chitarre. Si parte con
la voce quasi strozzata dell'iniziale Another Christian (pare quasi un
J Mascis sotto effetto di sedativi), per proseguire con la splendida Bark,
folk-song lisergica dove riescono probabilmente ad incontrarsi Pink Floyd, Elliott
Smith, Sparklehorse e Bon Iver in un colpo solo. L'autunnale Crawling spinge
più sui toni oscuri, mentre In The Wood trova una melodia da vero indie-folker
alla Iron &Wine prima maniera. Il brano forte dell'album è il singolo The Beast
Of Love, sia perché vede la collaborazione di Jonathan Donahue, cantante
dei Mercury Rev (di cui Herself è stato artista-spalla nel recente tour), sia
perché riesce a ipnotizzare l'ascoltatore per quasi sette minuti, meglio se vissuti
guardando il video che cerca la Palermo più dark. Chiudono il giro blues di The
Witness, ottimo intermezzo di energia, e il pessimismo folk di Treats
("When everything is clear, I see black"), marchio di fabbrica di un autore che
ama i toni dimessi (se non proprio depressi) soprattutto nei testi, ma dimostra
con questo album di avere in studio una statura da scena internazionale. E in
questo caso la durata di 33 minuti permette di concentrarsi al meglio su sette
brani che ci sentiamo di consigliare.
Nero
Kane Love
In A Dying World [American
Primitive 2018]
La giungla di produzioni
indie italiana è ormai fittissima e non sempre offre qualcosa di veramente originale,
per questo siamo contenti quando incontriamo un progetto come quello di Nero
Kane (Marco Mezzadri all'anagrafe), musicalmente forse ostico per molti nostri
lettori, ma decisamente in linea con quello che è l'immaginario che da sempre
muove la nostra webzine. Love In A Dying World nasce come disco,
ma diventa anche un cortometraggio (realizzato da Samantha Stella, artista visiva
e performer/danzatrice/tastierista che lo accompagna anche nei live) che segue
Kane in un pellegrinaggio nel deserto americano. Una sorta di viaggio lisergico
nel profondo dell'America con visioni alla Wim Wenders, che Kane commenta con
una serie di brani realizzati a Los Angeles con la produzione di Joe Cardamone
(era il leader degli Icarus Line), e caratterizzati da un suono molto evocativo
per sole chitarre e tastiere, che miscela folk e blues con sapori psichedelici
in cui si ritrovano sia echi di West Coast (Desert Soul) che di New York
e Velvet Underground (Black Crows). Ma soprattutto tanto di David Eugene
Edwards (16 Horsepower e Woven Hand) in How The Day Is Over o di Mark Kozelek
(Dream Dream), il tutto condito da ottima cura nei suoni (la chitarra di
Beacause I Knew When My Life Is Good fa vibrare le casse e l'anima). La
mancanza di ritmo e percussioni rende l'ascolto forse un po' straniante, ma è
evidente che l'album è da considerarsi non slegato dalle immagini che lo accompagnano.
Il film è visibile integralmente a partire da febbraio sul sito www.artribune.com.
Ferro
Solo Almost
Mine: The unexpected rise and sudden demise of Fernando (PT.1) [Riff
Records/Fernando Dischi 2018]
I Cut sono
stati una piccola istituzione del garage-rock bolognese per oltre vent'anni, ed
erano capitanati da Ferruccio Quercetti, chitarrista che ha ora deciso il passo
solista con il nickname di Ferro Solo. E Almost Mine: The unexpected
rise and sudden demise of Fernando (PT.1) fa capire fin dal titolo che
l'intenzione è quella di continuare su questa strada, con un disco in cui Quercetti
condensa il proprio background musicale al servizio di un concept-album che segue
le vicende del suo alter-ego Fernando. Chitarre in grande evidenza e rimandi a
tutto ciò che abbiamo sentito nel mondo roots/garage negli anni 80 e 90, fin dalla
partenza di It's a Girl, che non può non ricordare i Social Distortion,
o il dark-blues elettronico alla Mark Lanegan di Got Me A Job (produce
qui Luca Giovanardi dei Julie's Haircut). E ancora i giri di chitarre sixties
di Hamlette, le ballate alla Green On Red di You Don't Have to Tell
Your Story e This Daddy's Girl, ispirate piano-songs (Perfect Stranger
e Gala), e l'hard rock FM di He Spies (con la band romana dei
Giuda). Nel disco si respira una forte aria di rock antico, con produzione accorta
ma volutamente sporca, e l'aiuto di una serie di musicisti di valore dell'underground
italiano (dal mondo Julie's Haircut provengono anche Andrea Rovacchi e Ulisse
Tramalloni, mentre Sergio Carlini - Three Second Kiss - e Riccardo Frabetti -
Chow - completano la backing band dei Fernandos). Disco che andrebbe distribuito
nelle scuole per invogliare i ragazzini a provarci ancora con quello strano oggetto
che i vecchi chiamano chitarra.
Jennifer
V Blossom Hunting
Days [Jennifer
V Blossom, 2018]
Quello della "Riot Grrrl"
è uno stereotipo rock che ha ormai circa 30 anni, ma sembra non conoscere crisi.
Nei primi anni 90, dopo che artiste come Michelle Shocked, Tracy Chapman e Suzanne
Vega avevano aperto la strada ad una via folk del rock al femminile, arrivarono
Ani Di Franco, Brenda Kahn e altre a renderlo una vera e propria dichiarazione
di guerra a suon di chitarra acustica che non smette di avere adepte (penso a
Wallis Bird, ad esempio). E a quella tradizione appartiene sicuramente la casertana
Jennifer V Blossom, per anni promotrice della band dei The Over the Edge,
e da tre anni impegnata in una carriera solista che approda finalmente al primo
disco. Hunting Days è un progetto interessante che tenta di conciliare
quello che è il combat-folk di brani come 3 AM e Scent Of Flower con
una ricerca e modernizzazione della canzone italiana storica, qui evidenziata
nell'autografa e decisamente teatrale Come Se Nessuno Mai e in una cover
dark-folk di Nel Blu Dipinto di Blu (dal vivo esegue spesso anche Parlami
d'Amore Mariù per dire). Il che rende Hunting Days un disco davvero eterogeneo,
sebbene sempre caratterizzato dal suono scarno della sua acustica. Non mancano
comunque i momenti riflessivi (As Two Lovers e la stessa title-track),
e espisodi più rock full-band (A Bit Like Going Back). Particolare impressione
fa il tono melodrammatico di Hard Stuff e il teso finale di From My
Lips, mentre sempre al suo amore per la canzone classica si riferisce la resa
di Non, Je Regrette Rien della divina Edith Piaf. Da seguire anche per
il futuro.