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young soul singers di
Nicola Gervasini (09/04/2018)
Da grande Durand Jones voleva fare il sassofonista, e ha dovuto litigare
non poco con la propria madre, che al contrario lo vedeva bene a cantare nel coro
della chiesa. Detta così sembra una storia da soul music degli anni cinquanta,
ma accade ancora anche in questi anni dieci nella profonda America. Galeotti furono
però gli anni universitari, in cui Durand ha messo insieme una band, li ha chiamati
The Indications per assonanza con i tanti gruppi doo-wop di cinquant'anni fa,
e ha provato a dire la sua nel mondo del new soul. Il self-titled Durand
Jones & The Indications aveva visto la luce già nel 2016 per una piccola
etichetta (la Colmine) ed era passato ovviamente inosservato per motivi di scarsa
distribuzione, ma ora a ristamparlo ci pensa la Dead Oceans, un tempo paradiso
per band indie folk come Phosphorescent, Akron Family e Califone, oggi evidentemente
intenzionata ad allargare il raggio d'azione anche nella black music.
E
lo fa allungando il brodo con una registrazione live (chiamata sibillinamente
Live Vol.1, lasciando ad intendere che la riedizione potrebbe non finire qui),
per giustificare così anche la dicitura "deluxe edition". Durand Jones e i suoi
fidi amici (Aaron Frazer alla batteria, Blake Rhein alla chitarra, Kyle Houpt
al basso e Justin Hubler all'Hammond) arrivano ormai ultimi di un movimento di
rinascita soul che con la morte della regina Sharon Jones è forse diretto verso
il tramonto, ma il tempo e l'occasione per diffondere ancora il verbo della soul
music di stampo classico c'è sempre. Quello che manca è davvero un pizzico di
originalità alla proposta che lo possa distinguere dai tanti nomi usciti o riscoperti
in questi anni, da Lee Fields fino a Charles Bradley, e forse anche una voce davvero
memorabile, che nel genere è peccatuccio non da poco. In ogni caso il riferimento
è il soul di metà anni settanta, quello già ammiccante al Philly Sound (basta
sentire Make a Change, Smile o la ballata
Can't Keep My Cool), ma ancora non scivolante
nella melassa che poi ammantò quella soul music che non voleva cedere ai ritmi
disco nella seconda metà di quel decennio.
E quando decidono di dare ritmo,
tirano fuori anche riff di chitarra come quello di Groovy
Babe che ricorda da lontano il soul energico di Black Joe Lewis & The
Honeybears. Ma è la ballata romantica alla fine che la fa da padrona, con il tappeto
d'organo di Giving Up, il momento sospeso
tra lounge music e Smokey Robinson di Is It Any Wonder?, il blues abbozzato
di Now I'm Gone e lo strumentale alla Tramp di Tuck and Roll. A
questo punto scatta poi la più lunga parte live, dove i giovani dimostrano già
di saperci fare, ma anche qui senza particolari rivoluzioni da proporre. Non si
grida al miracolo dunque con l'arrivo a Soultown di un nuovo pretendente al trono,
ma se ancora state piangendo la morte di Otis Redding, questo disco fa al caso
vostro.