Reverend Shawn Amos & The Brotherhood
Blue Sky
[Put Together 2020]

shawnamos.com

File Under: soul brothers

di Matteo Fratti (20/04/2020)

Ci siamo già imbattuti nel predicare blues di tale Shawn Amos, che reverendo lo è per davvero, della Universal Life Church. Erano due anni orsono e i nostri ascolti incrociano ancora una volta il salmodiare in black di questo ministro coll’armonica, mastro-cerimoniere dei suoi Brotherhood, che pure sono gli amici di una vita, coi quali condivide l’esperienza artisticamente maturata sul campo, di progetti paralleli o in comune, sia sul palco che come produttore in studio. Ed è ancora per la Put Together Music che esce questo Blue Sky, dopo lo scorso Breaks It Down del 2018, nel mentre che il nostro non si è mai fermato, ma ha suonato in giro per gli States fino a ritrovarsi in Texas, un altro mondo rispetto alla sua Los Angeles, a registrare proprio quest’ultimo lavoro, di cieli azzurri e nuvole texane.

E a parte i contributi al disco di coriste e altri musicisti, non a caso il Reverendo fa appello alla sua band come a una “fratellanza”, the Brotherhood, appunto, insieme per una missione. In un certo senso, pare un già sentito, e altri arcinoti Fratelli Blues (The Blues Brothers, di John Landis, USA 1980) la portarono avanti anni fa in una più nota vicenda non solo filmica: è qualcosa che accomuna religione e musica fin dalle radici dell’afro-America, a cui anche la vocazione di Mr. Amos pare non dare soluzioni di continuità in quella mission, affine agli eroi che salvarono un orfanotrofio in quell’epica urbana, come una sorta di archetipo contemporaneo. Ma non basti indossare occhiali scuri e rifare i blues per coglierne lo spirito, e aver non a caso quel che è definito il “soul”. Reverendo e compagni (Chris Roberts, chitarra, e i rispettivi basso e batteria di Christopher Thomas e Brady Blade) ne proseguono gli intenti, e allargano la loro assemblea di adepti fin nelle terre dello stato della Stella Solitaria, evocando la loro amicizia come un sentimento comunitario che li guida nel loro operato.

Il disco in questione però, gravido di pezzi autografi, è un lavoro molto articolato, in cui proprio quell’ “anima” che vorrebbe essere un po’ anche il significato di “soul” non si intercetta nell’immediato, ma risulta, piuttosto, mediata da una consistente corporeità d’intorno, come di un bel lavoro di produzione e arrangiamenti, e meno di quel procedimento “a togliere”, per giungere meglio al succo del discorso. Sicché mi sento di ricondurre essenzialmente a due le tracce che colgono appieno questo manifesto poetico, in cui lo stesso personaggio, fiero: - “questa è la prima volta..” – dichiara – “.. che ho avuto lo spazio per cercare di diventare più un cantautore all’interno dei confini del blues”-. Sono allora la grandiosa The Pity and The Pain, a essere veramente edificante, quanto a “soul-feeling”; quindi, Keep The Faith, Have Some Fun che ha in sé il partecipato funky delle occasioni migliori. Non convincono invece, per quel che è il limitare di cui sopra, certi campionamenti già in apertura per Stranger Than Today, come per Counting Down The Days, più aggressiva. Delicata e intensa rimane invece Her Letter, quanto quasi punk’n’roll quella Hold Black rubata all’asfalto, fin nel cuore dell’America. Comunque, nei propositi di un album maturo, e non solo soul.


    


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