Josh
T Pearson The Last of Country Gentlemen
[Mute/
Self 2011]
Dovremmo forse considerarlo più come un romanzo epistolare o una sorta di
flusso di coscienza e assai meno un disco vero e proprio questo esordio solista
di Josh T Pearson, nuova acclarata stella del folk più austero e tormentato,
che tanto manda in fibrillazione la critica contemporanea. Last of the Country
Gentlemen ha già aperto una breccia, infatti, nel cuore della stampa inglese
e non solo, ricevendo note di assoluto stupore dall'autorevole Mojo e dal londinese
The Times, sempre calcando la mano sul tenore catartico di queste ballate. Quasi
un'ora di musica severamente acustica divisa in sette brani senza soluzione di
continuità, tra cui quattro episodi sopra i dieci minuti: quasi si trattasse di
un'unica canzone, di un canto liberatorio che molto ha a che fare con i demoni
del singolo. Musica come terapia dell'anima insomma, anche a costo di sembrare
terribilmentre auto-indulgente, scrupoloso nel sezionare la propria vita e nel
curare le ferite in pubblico.
È qui che il disco si scontra con la realtà,
forse troppo cinica mi sia concesso, del vostro recensore: Last of the Country
Gentlemen, armato di sola chitarra acustica (e lasciamo stare ogni accostamento
"facile", da Buckley a Townes Van zandt, perchè non se ne può
davvero più!), di una voce che è innanzi tutto una litania, di un violino
(quello di Warren Ellis dei Dirty Three, che hanno preso a cuore la vicenda
di Pearson dopo un concerto in Irlanda nel 2009) e poco altro (si sente un piano
in lontananza nel finale di Drive Her Out)
sembra sfidare costantemente l'ascoltatore, portandolo verso il precipizio stesso
dell'autore. Ma non si tratta di una banale questione di pazienza, che saremmo
anche disposti a concedere a Josh T Pearson, è semmai una prova di misura, di
contatto ed empatia musicale. Appesantito da una storia personale che sfiora il
classico copione della sconfitta e del "maudit", Pearson ha abbandonato presto
i sogni di gloria con i Lift to Experience (un solo disco nel 2001, The Texas-Jerusalem
Crossroads, che genera il culto), promettente meteora dell'indie rock più onirico
e lancinante, per arenarsi in una vita alla deriva.
Dal natio Texas si
è spostato in Europa, vagando fra Berlino (dove in due notti ha preso forma il
qui presente lavoro) e Parigi, meditando nel frattempo un possibile ritorno sulle
scene. Secondo le sue condizioni estreme però: nulla in favore dell'esibizione
o meglio dell'esposizione, tutto per l'arte potremmo dire, o forse per la strada.
Nel frattempo, vedendo cadere gli amici e i vecchi compagni, si è reinventato
manovale, agricoltore, si è mosso cercando un senso alla sua vita. Difficile mettere
in discussione il fatto che buona parte di queste peripezie della sua anima siano
finite dritte nei tredici estenuanti minuti di Honeymoon's
Great! Wish You Were Her, o in quella fragilità folk che fluttua letteralmente
in Sweetheart I Ain't Your Christ e Sorry
With A Song, e si fa malinconica in Country
Dumb, la più dolce e attraente per via del magico violino, ma da qui
a incidere un disco…perché non un romanzo allora? O una forma poetica dove la
parola scritta si dia la possibilità di essere scavata fino all'osso. Se deve
essere coinvolta anche una più ampia visione musicale ci teniamo più di una riserva
sulla riuscita finale dell'operazione. (Fabio Cerbone)