Fionn
Regan
The Shadow of an Empire
[Heavenly Records/Universal 2010]
Nel settembre del 2007 Lucinda Willams chiamò sul palco il giovane ed esordiente
Fionn Regan presentandolo come "il Bob Dylan della sua generazione", ma pare
che dal pubblico qualcuno evidentemente meno avvezzo alle grandi sparate le abbia
urlato "Basta bere troppo!". Che la Williams possa aver alzato troppo il gomito
quella sera è cosa quanto mai probabile, ma in quel caso l'esagerazione era anche
dettata dal fatto che questo giovane songwriter irlandese era ai tempi uno dei
nuovi puledri su cui più puntava la sua etichetta Lost Highway, intenzionata a
ringiovanire la sua prestigiosa scuderia Irish (Van Morrison, Elvis Costello).
Evidentemente le vendite del disco d'esordio (The End Of The History) non devono
essere andate alla pari con le molte critiche positive ricevute, se è vero che
l'anno scorso l'etichetta si è rifiutata di pubblicare un secondo album già prodotto
nientemeno che da Ethan Johns, costringendo oltretutto il povero Fionn a dover
ripartire da capo con le registrazioni. Per questo The Shadow Of An Empire
esce a ben tre anni di distanza dall'esordio, perché è un disco registrato in
fretta e furia in una vecchia fabbrica di biscotti abbandonata con musicisti locali
(in Lord Help My Poor Soul appare Drew McConnell,
bassista dei Babyshambles) e licenziato per un'etichetta indie rimediata in extremis
dalla casa madre Universal.
Sono storie fortunatamente rare ormai, nell'epoca
in cui l'autoproduzione non è più un ripiego ma sempre più spesso la prima scelta,
eppure a questo punto è impossibile non ascoltare questi brani con la mente a
cosa avrebbe potuto farne l'entourage esperto e pressoché infallibile del produttore
di Ryan Adams (pensiamo al lavoro svolto per Jack Savoretti e Howard Eliiott Payne).
Regan in ogni caso ha fatto buon viso a cattivo gioco, e forte dell'esperienza
americana presenta un prodotto più arrangiato e complesso, con più chitarre elettriche
e soprattutto un ritmo sostenuto che lo rende mai noioso. Una "svolta elettrica"
che sottolinea però quanto tenda ad assomigliare fin troppo al sopracitato Dylan,
sia per modo di cantare che per melodia e struttura delle canzoni (si parte con
una Protection Racket che potrebbe essere
tranquillamente una cover di Subterranean Homesick Blues…).
Per quanto
Lines Written In Winter o Genocide
Matinee dimostrino una penna in grado di uscire spesso dai clichè del
genere, non sembra proprio essere lui l'uomo che riporterà il folk di marca irlandese
fuori dal ghetto in cui si è rintanato da anni (pensate a come sono spariti dal
grande giro Pogues, Hothouse Flowers, Bap Kennedy e tanti altri), e l'immagine
del suo futuro che traspare da questo disco è più simile ad un'eroica resistenza
da outsider alla Andy White (con cui ha molti punti in comune, basta ascoltare
Catacombs o Coat
Hook), piuttosto che ad una fulgida carriera fatta di duetti con Willie
Nelson (passo obbligato per chi transita alla Lost Highway). Rimandato a tempi
migliori, con il forte augurio di poterli trovare. (Nicola Gervasini)