Storia travagliata e a maggior ragione affascinante quella di John Grant,
definita una delle voci più intense della scena indie rock attuale, eppre assai
poco frequentato al di fuori di una ristretta cerchia di estimatori. Fra questi
ultimi senza dubbio Robin Guthrie e la sua Bella Union, che fin dai tempi dei
Czars, band formatasi a Denver intorno al songwriting di Grant, ha sprecato lodi
e molta fiducia per un progetto fra sognante indie pop e radici folk mai realmente
impostosi presso pubblico e critica. Gli innamoramenti tardivi sono spesso sintomo
di risarcimento, se non di malcelata vergogna, forse per l'indifferenza mostrata
in passato e così su Queen of Denmark sono letteralmete piovute
le esaltazioni collettive di una critica (inglese in primo luogo) che non ha esitato
ad imprimere sull'album il marchio del capolavoro. Mojo a guidare le fila del
gruppo, la collaborazione di John Grant con i texani Midlake ha aperto
una breccia, facendo affiorare un rinnovato interesse per quel cantautorato pop
elegante e mellifluo che ha le sue radici nella prima metà dei seventies.
La vocalità adamantina e profonda di Grant ha gioco facile in questa sottile
rievocazione, mentre la veste sonora dei Midlake sembra essere l'ideale spalla
per costruire ballate sontuose, con stratificazioni che passano dal folk rock
di matrice inglese ad una certa magnificenza pop figlia dei Beatles, di Todd Rundgren,
persino di alcuni "eccessi" alla ELO. Dopo avere spezzato la carriera
precedente con i Czars ci sono volute alcune stagioni di ripensamento ed un trasloco
a New York perché John Grant riprendesse i fili della sua ispirazione: qualche
collaborazione con Flaming Lips e soprattutto con gli onnipresenti Midlake ha
condotto a questa fortunata condivisione. Negli studi texani l'intesa con questi
ultimi è confluita in alcune suite lussuose che nel trittico iniziale di TC
and Honeybear (spunti progressive e una voce soprano ad affiancare
Grant), I Wanna Go to Marz (piano dolcissimo
a scandire la melodia, ricorda non poco la maestosità dei recenti Shearwater)
e della malinconica Where Dreams Go to Die (lo
spleen di Mark Eitzel?).
In un gioco di equilibri che sta bene attento
a non scadere nel pericoloso crinale del kitsch, Queen of Denmark vive dei conflitti
fra l'armonia pacifica dell'interpretazione di Grant e i testi spesso anche aspri
e carichi di tensione e disagio (la copertina ne amplifica l'effetto), alternando
mondi vagamente onirici e questioni più materiali che coinvolgono la personalità
e il sesso. Da qui forse l'esigenza di spezzare quella ricercatezza formale che
trasuda dai brani più raffinati con alcune gemme pop che si colorano di ironia
(Sigourney Weaver, prorpio l'attrice di Alien
richiamata nelle liriche, e ancora la saltellante Chicken
Bones), di scanzonata solarità (una Silver
Platter Club che a tempo di marcetta vaudeville staziona fra Graham
Nash e Paul McCartney). Colpi si synth (Brit Herrington) e una ostentata
ridondanza affossano una parte della scaletta, dalle parti di Outer
Space e Jesus Hates Faggots in
modo particolare, dando forse l'impressione di voler "sfruttare" fin troppo l'effetto
vocale di Grant, salvo risalire nella chiusura grazie al saliscendi emozionale
della stessa Queen of Denmark. (Fabio
Cerbone)