Pur augurando a questo baldo settantenne altri trent'anni di salute e
dischi di tal fatta, ci azzardiamo a dire che Man Overboard potrebbe
anche chiudere (con il botto…) il ciclo artistico di Ian Hunter.
Dopo i fasti dei Mott The Hoople, ingiustamente noti ai più solo grazie
ad uno scarto di magazzino del Duca Bianco Bowie, l'ispirazione di Hunter
era sempre rimasta in bilico tra la madrepatria britannica e una terra
americana che lo attraeva, ma che lo ha sempre ignorato e ritenuto un
"alieno". L'album All-American Alien Boy nel 1976 arrivava a questa conclusione
partendo proprio da un'accorata lettera alla propria terra d'origine ridotta
in macerie (Letter To Britannia From The Union Jack era il triste brano
che apriva il disco). Poi sono arrivati il "disco americano" (You're Never
Alone With a Schizophrenic, con mezza E-Street Band al seguito), il tuffo
nella new wave di casa (Short Back 'n' Sides) e di nuovo oltreoceano per
la deriva nell'FM statunitense di Yui Orta, salvo poi varcare ancora La
Manica per il folle progetto di Dirty Laundry, album concepito casualmente
con alcuni rimasugli del punk inglese. Ora l'alternanza sembra essersi
interrotta, perché dopo gli atti di rabbia e definitivo rifiuto per il
decadente Regno Unito post-tatcheriano (Rant del 2001) e per l'America
di Bush Jr. (Shrunken
Heads del 2007), ben rappresentati dai due testi più disgustati
della sua carriera (in Ripoff l'Inghilterra era vista come un lusso che
nessuno può più permettersi, Soul Of America negava addirittura un'anima
alla nazione americana), stavolta la palla sarebbe dovuta ripassare alla
sfera britannica.
Invece Man Overboard non solo resta in America, ma si accasa stabilmente,
trova alla sua musica una dimensione definitiva. Il Dylan in lui ha vinto
sui Kinks che gli rullano da sempre nel cuore si potrebbe dire, o semplicemente
per la prima volta nella sua carriera, a parte il duraturo matrimonio
artistico con il chitarrista Mick Ronson, Hunter sembra aver trovato un
gruppo di musicisti con cui collaborare stabilmente e condividere non
solo un paio di fugaci sessions. Il sodalizio produttivo con Andy York
(chitarrista spesso al servizio di Willie Nile e John Mellencamp) iniziato
con il disco precedente pare ormai qualcosa di più di un semplice vezzo
di sfruttarne le esperienze a 360 gradi in termini di rock americano,
quanto una piena unitarietà di intenti che qui arriva a sfornare alcune
delle sue migliori ballate come la title-track tirata a folk o la finale
River Of Tears, che sfoggia un baldanzoso
piano alla Bruce Hornsby. L'addio al suo adorabile rock and roll esagerato,
cafone e pomposamente glam-rock sembra dunque irreversibile, e se Shrunken
Heads sembrava un tipico disco di Ian Hunter bagnato nelle acque del Mississippi,
Man Overboard è un tipico disco di riflessivo e intimista
heartland-rock realizzato da Ian Hunter, e la differenza davvero non è
irrilevante.
E' importante notare anche che ben tre brani (Man
Overboard, l'intensa The Great Escape
che apre nel migliore dei modi le danze e Babylon
Blues) provengono dalle sessions del disco precedente, ma vennero
escluse per il loro tono troppo personale. Hunter stesso spiega che l'avvento
di Barack Obama ha fatto venire meno la voglia di combattere perché, almeno
nelle premesse, "sembra un ragazzo a posto", ma non è venuta certo meno
la voglia di raccontare se stesso (These Feelings
e Win It All), magari anche attraverso
romanze popolari che non gli sentivamo raccontare da tempo (Girl
From the Office). Il ritmo dell'album è volutamente lento,
e i momenti di divertimento come Up And Running
o la melodica Arms And Legs
badano più ai suoni che all'energia. "Nuovo Hunter", "Hunter-Roots" o
"Ultimo Hunter" che sia, Man Overboard è un bellissimo disco di un uomo
che sembra essere finalmente approdato nella sua "Isola Che Non C'è"
dopo anni di viaggi e battaglie. (Nicola Gervasini)