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Robyn
Hitchcock & The Venus 3
Goodnight Oslo
[Yep
Roc 2009]
Uguale a nessun'altro, ma sempre identico a sé stesso, questo è Robyn
Hitchcock dopo più di trent'anni di carriera. Un eterno bambino del
pop psichedelico inglese e un uomo che (sono parole sue) non si è mai
ben inserito nella società moderna. La sua musica negli anni ottanta è
stata sublime e importante, ma questo non l'ha mai fatto uscire dal rango
di cult-artist, uno di quei nomi incapaci di fare il botto con il capolavoro
universalmente riconosciuto, ma anche di produrre un brutto disco. O lo
si ama o lo si ignora Hitchcock, sia quando dimostra di essere il miglior
figlio illegittimo di Syd Barrett, sia negli ultimi anni, in cui ha (ri)scoperto
Dylan e si è innamorato della musica roots americana.
Un matrimonio a noi gradito, ma che nascondeva però una certa perdita
della sua vera identità. Goodnight Oslo riporta tutto alla
perfezione di un tempo: è un disco di Hitchcock al 100%, per certi versi
riconducibile ad un Globe Of Frogs o ad un Queen Elvis come stile e ispirazione
(Your Head Here sta da quelle parti).
E sulla strada si recupera anche la proficua collaborazione con Peter
Buck dei R.E.M., che con Scott McCaughey (con cui Buck ha dato
vita con Steve Wynn ai Baseball Project) e Bill Rieflin, formano questa
nuova edizione dei Venus 3. Non che gli ultimi lavori (per lo meno Spooked
e Olè
Tarantula) fossero quelli di un artista in crisi, ma qui torna
finalmente il genietto che con poche canzoni ti gettava in un mondo tutto
suo, fatto di fiabe disarmoniche, mostri incoerenti e visioni grottesche.
Torna l'uomo che meglio utilizza gli splendidi arpeggi di un Buck anche
lui con la lancetta del tempo volta all'indietro, sempre utile per confezionare
perfette pop-songs visionarie come I'm Falling,
marcette da White Album come Saturdays Groovers
o quelle acide nenie con voce bassa che ce lo fanno amare da
sempre (16 Years).
Le escursioni nella tradizione americana non sono state però gettate al
vento, solo adesso sembra che lo scolaro abbia finito le ripetizioni e
sappia maneggiare e plasmare la materia a suo piacimento. Così il disco
si apre con una What You Is che inizia
come la farebbe iniziare un John Fogerty e continua passeggiando sui versi
di Gotta Serve Somebody di Dylan. Oppure Hurry
For The Sky, cavalcata quasi country che fa sfoggio di slide
guitars nelle casse e cactus nelle suggestioni, o la stralunata Up
To Our Necks, concepita con il pensiero rivolto ad una mariachi-band
tra fiati, mandolini e distorsioni varie. I testi hanno come al solito
un senso intraducibile, pena la perdita di quei giochi delle parole che
si muovono in uno spazio concettuale che si governa con logiche diverse
dalle nostre. L'unico modo per stare al passo è lasciarsi andare alle
sue dinamiche perverse, come quelle del rapporto uomo-donna raccontato
in Intricate Thing, nella mattonella
allucinata di TLC. o nei sei minuti
di Goodnight Oslo. Le nuove generazioni
di folksinger allucinati si siedano e prendano appunti prego…
(Nicola Gervasini)
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