|
Alela
Diane
To Be Still
[Fargo/Self
2009]
Si tratta ancora di un affare di famiglia per Alela Diane: concepito
fra la wilderness americana che circonda Nevada City, California, dove
la cantautrice è cresciuta con la famiglia ed è tornata
ad abitare dopo un lungo peregrinare per il mondo; registrato fra le mura
dello stesso studio casalingo del padre, che aveva visto sorgere l'acclamato
esordio The
Pirate's Gospel; attorniato infine da musicisti che sono prima
di tutto amici e compagni di strada, solo in un secondo momento dei semplici
collaboratori; To Be Still è la naturale propaggine
di quel solitario canto acustico, timido e misterioso, che aveva affascinato
il mondo della canzone folk sbucando dal nulla un paio di anni fa. In
superficie sono cambiati i suoni, oggi più forbiti, rotondi e pienamente
amalgamati alla voce della protagonista, grazie alla presenza di batteria,
pedal steel (Pete Grant, colui, si dice, che insegnò a suonarla
a Jerry Garcia), violino (Rondi Soule, la stessa che diede lezioni sullo
strumento alla piccola Alela), chitarra elettrica e banjo (Matt Bauer),
ma in verità non è mutato il clima in cui si muovono le
dolci nenie di Alela Diane.
Ecco perchè To Be Still non è una rivelazione e non è
neppure un passo avanti, solo un ricamo più affabile e meno spettrale
dell'esordio, ma con lo stesso carico di dolce solitudine che lanciava
questa ragazza tra le nuove voci del rinascimento folk americano, forse
giunta troppo tardi sul proscenio rispetto alle colleghe come Gillian
Welch, Po' Girl, Laura Cantrell o Jolie Holland. Non c'è nulla
che non riesca ad ammaliare letteralmente l'ascolto, trasportandolo in
un mondo sospeso (Dry Grass and Shadows,
The Ocean), un po' fatato come la
sua interprete (Take Us back, Age
Old Blue, in coppia con Michael Hurley), dove l'eco lontana
della mountain music della tradizione Appalachiana si incrocia a stretto
giro con le fragranze del country rurale (The
Alder Trees), con il folk più onirico, persino fra accenti
british (My Brambles, Every
Path) che non possono non rimandare alla "regine"
Sandy Denny e Jaqui McShee: ma tutto questo rimembrare luoghi e leggende
americane, citando storie che la stessa Alela dice di avere appreso dalla
madre e dai nonni, o semplici realtà vissute in prima persona,
tutta questa nostalgica fragilità si perde strada facendo in un
folk dalle fattezze dimesse, che tende ad accartocciarsi su se stesso,
rischiando l'isolamento.
Certo, Alela Diane potrebbe sempre convicerci che queste ballate, nate
nella più totale contemplazione della sua cittadina, siano esattamente
lo specchio musicale di quanto ha captato intorno a lei, ma non bastano
a renderle più incisive, ad accostarle forzatamente, come qualcuno
vorrebbe, all'opera di Will Oldham (troppo lontana la sua stella) o persino
a Karen Dalton. Tendono ad essere un po' troppo auto-compiaciute, ripetitive,
per promuovere la loro interprete ad un ruolo che in questo momento non
sembra ancora appartenerle.
(Fabio Cerbone)
www.aleladiane.com
www.myspace.com/alelamusic
|