inserito 13/02/2009

Alela Diane
To Be Still
[Fargo/Self
 2009]



Si tratta ancora di un affare di famiglia per Alela Diane: concepito fra la wilderness americana che circonda Nevada City, California, dove la cantautrice è cresciuta con la famiglia ed è tornata ad abitare dopo un lungo peregrinare per il mondo; registrato fra le mura dello stesso studio casalingo del padre, che aveva visto sorgere l'acclamato esordio The Pirate's Gospel; attorniato infine da musicisti che sono prima di tutto amici e compagni di strada, solo in un secondo momento dei semplici collaboratori; To Be Still è la naturale propaggine di quel solitario canto acustico, timido e misterioso, che aveva affascinato il mondo della canzone folk sbucando dal nulla un paio di anni fa. In superficie sono cambiati i suoni, oggi più forbiti, rotondi e pienamente amalgamati alla voce della protagonista, grazie alla presenza di batteria, pedal steel (Pete Grant, colui, si dice, che insegnò a suonarla a Jerry Garcia), violino (Rondi Soule, la stessa che diede lezioni sullo strumento alla piccola Alela), chitarra elettrica e banjo (Matt Bauer), ma in verità non è mutato il clima in cui si muovono le dolci nenie di Alela Diane.

Ecco perchè To Be Still non è una rivelazione e non è neppure un passo avanti, solo un ricamo più affabile e meno spettrale dell'esordio, ma con lo stesso carico di dolce solitudine che lanciava questa ragazza tra le nuove voci del rinascimento folk americano, forse giunta troppo tardi sul proscenio rispetto alle colleghe come Gillian Welch, Po' Girl, Laura Cantrell o Jolie Holland. Non c'è nulla che non riesca ad ammaliare letteralmente l'ascolto, trasportandolo in un mondo sospeso (Dry Grass and Shadows, The Ocean), un po' fatato come la sua interprete (Take Us back, Age Old Blue, in coppia con Michael Hurley), dove l'eco lontana della mountain music della tradizione Appalachiana si incrocia a stretto giro con le fragranze del country rurale (The Alder Trees), con il folk più onirico, persino fra accenti british (My Brambles, Every Path) che non possono non rimandare alla "regine" Sandy Denny e Jaqui McShee: ma tutto questo rimembrare luoghi e leggende americane, citando storie che la stessa Alela dice di avere appreso dalla madre e dai nonni, o semplici realtà vissute in prima persona, tutta questa nostalgica fragilità si perde strada facendo in un folk dalle fattezze dimesse, che tende ad accartocciarsi su se stesso, rischiando l'isolamento.

Certo, Alela Diane potrebbe sempre convicerci che queste ballate, nate nella più totale contemplazione della sua cittadina, siano esattamente lo specchio musicale di quanto ha captato intorno a lei, ma non bastano a renderle più incisive, ad accostarle forzatamente, come qualcuno vorrebbe, all'opera di Will Oldham (troppo lontana la sua stella) o persino a Karen Dalton. Tendono ad essere un po' troppo auto-compiaciute, ripetitive, per promuovere la loro interprete ad un ruolo che in questo momento non sembra ancora appartenerle.
(Fabio Cerbone)

www.aleladiane.com
www.myspace.com/alelamusic


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