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The
Bean Pickers Union
Potlatch
[Inseam/
Shut Eye 2008]
Ci sono dischi senza tempo e ci sono quelli "fuori" tempo; Potlatch,
opera prima dei Bean Pickers Union, fa senz'altro parte dei secondi.
Fossero uscite più di dieci anni fa queste dieci canzoni sarebbero probabilmente
nelle liste dei titoli "cult" di quella scena che (per comodità) chiamiamo
"alt-country", ma nel 2008 le cose sono cambiate, i dischi dei Whiskeytown
e degli Uncle Tupelo sono promossi al rango di pietre miliari per tutti
ed escono nelle deluxe-edition per collezionisti, mentre la testata simbolo
del movimento (No Depression) ha chiuso i battenti giusto pochi mesi fa.
Ma Chuck Melchin, vero padrone di casa di questa band, è un giovane
che, sulla scorta di quei dischi, anni fa si è messo una chitarra al collo
e ha girovagato a lungo per l'America suonando, vivendo e respirando il
mito degli hobo.
Potlatch (il termine indica una sorta di cerimonia dei Nativi Americani)
è il racconto di questo viaggio, fin dall'iniziale
Photograph, una straordinaria ballata lenta con Neil Young
nella chitarra, un po' di anestetico nel motore, i Jayhawks nel pianoforte
e una voce che riesce ad assomigliare nello stesso tempo a Jeff Tweedy
e a Jay Farrar. Ma è soprattutto l'istantanea di un'America agonizzante
a colpire, una broken land che un tempo era un città, un fiume prosciugato
e campi di grano secchi che rappresentano una nazione arida e in decadenza.
Una sorta di risposta tragicamente aggiornata alla fatidica domanda "che
cosa hai visto, figlio mio dagli occhi blu?". Il disco, dopo una partenza
così fulminante, continua bene con Warrior,
anthem dal ritmo più sostenuto ed elettriche più a sud, per una canzone
che ricorda davvero tanto i racconti di guerra dei Drive By Truckers più
recenti, mentre con la successiva Reaper
si torna alla tradizione per raccontare la storia di Robert Johnson, con
una acustica alla Leadbelly che scivola sopra il rumore di un vinile polveroso,
e un canto strascicato che ovviamente cerca (e trova) gli Uncle Tupelo
più rurali. Brano di grande impatto che chiude un trittico iniziale di
altissimo livello.
Ma a questo punto il viaggio si fa elenco di stili: Bride
va verso la West Coast di Stephen Stills, Independence
Day sfrutta un bell'organo hammond per un racconto che ricorda
gli indimenticati Loose Diamonds, mentre Home
va sul sicuro con un giro acustico e un tema abbastanza risaputo. Ci si
risveglia comunque con la bella chitarra honky-tonk di I'm
So Sorry, suonata da Bob Metzeger, un veterano con una
vita passata alle spalle di Leonard Cohen (da Recent Songs ad oggi). Dopo
un breve intermezzo strumentale (Waltz N.1),
si chiude dopo soli 33 minuti di viaggio con una ballata tutta acustiche
e mandolini (Promise) e un ultima
cavalcata elettrica da cavalli pazzi (Jenny Anne).
I Bean Pickers Union per la loro opera prima hanno scelto di fotografare
l'America attraverso tutti i suoi stili musicali più rurali, una piccola
Polaroid venuta fuori già con i colori sbiaditi dal tempo. Ma volete forse
negare l'indiscutibile fascino delle fotografie d'epoca?
(Nicola Gervasini)
www.myspace.com/beanpickersunion
www.beanpickersunion.com
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