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Jim
Lauderdale & The Dream Players
Honey Songs
[Yep
Roc/ IRD
2008]
Nashville, Tennessee, la Mecca del country che qui tutti amiamo, ma anche
la grottesca macchina da business descritta a suo tempo da Robert Altman,
cresciuta nel cuore dell'America bianca e conservatrice come indotto di
una trasmissione radiofonica (il Grand Ole Opry). Jim Lauderdale
è un prodotto di questa Nashville, nel bene e nel male di una carriera
discografica ormai quasi ventennale, nata all'ombra del suo pigmalione
Rodney Crowell e proseguita tra tanti onori, Grammy Awards e vendite considerevoli.
Non è un caso che anche il francese Philipe Cohen Solal dei Gotan Project
si sia rivolto proprio a lui in primis per il suo trip nashvilliano delle
Moonshine
Sessions, Lauderdale infatti è forse il più rappresentativo
e credibile trait d'union tra la Nashville marchettara e quella più sregolata
e creativa degli "outlaws", con abbastanza personalità per non finire
nella massa informe dei blockbusters alla Garth Brooks e troppo poca per
arrivare a produrre opere a livello dei suoi padri artistici.
Honey Songs è il suo quarto album negli ultimi 18 mesi, e saremmo
tentati a sospettare un frettoloso contentino al numeroso pubblico che
ha decretato il successo dei suoi recenti bestsellers dedicati al bluegrass.
Invece Lauderdale ha evidentemente sentito il bisogno di tornare in fretta
a fare la sua musica e a farla con la gente giusta. I Dream Players
che lo seguono sono infatti una band da sogno di nome e di fatto: il chitarrista
James Burton e il batterista Ron Tutt sono nati nella band di Elvis
Presley, Garry Tallent al basso è proprio quello della E-Street
Band in libera uscita, Glen D. Hardin al piano e Al Perkins alla
pedal steel sono quanto di meglio si possa sperare di trovare in uno studio
di registrazione del Tennessee. Si aggiungano ai cori Emmylou Harris,
Buddy Miller, Patty Loveless e Kelly Hogan e il quadro è completo.
Honeysuckle Honeypie inizia le danze nel modo migliore, con
un bel seventies-sound corredato da cori femminili e un Burton straordinario
nei ricami chitarristici, e sulla stessa falsariga si svolge anche la
più rockeggiante Stingray.
I Hope You're Happy segue rappresentando al meglio la sostanza
del disco: il brano è scontato come il sereno dopo la tempesta, ma l'esecuzione
e l'interpretazione di Lauderdale riescono a rivalutarlo a ottimi livelli.
Le Honey Songs di Lauderdale sono queste, sospese a metà tra la pura accademia
(Hittin' It Hard, Molly's
Got A Chain o anche il motivetto balneare di Borrow
Some Summertime), qualche soluzione melodica di facile impatto
(la ballatona strappalacrime It's Finally Sinkin'in),
e qualche convincente cavalcata nella prateria (le riuscite The
Daughter of Majestic Sage e Those
Kind of Things Don't Happen Every Day). La lunga dichiarazione
di I'm Almost Back chiude poco più
di mezz'ora di discrete country-songs suonate e cantate come Dio comanda…quanto
basta per ritagliarsi un ruolo primario nella discografia di Lauderdale
e un piccolo spazio nelle nostre programmazioni.
(Nicola Gervasini)
www.jimlauderdale.com
www.yeproc.com
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