Ry
Cooder
I,
Flathead
[Nonesuch/
Warner 2008]
Piace la ritrovata prolificità di Ry Cooder, dopo anni di speleologia
nei meandri della musica popolare di mezzo mondo. E piace la sua ostinazione
nel proporre progetti che non siano solo raccolte di canzoni da inserire
in playlist, ma opere con una loro autonoma coerenza. Il gatto
Buddy non ha ancora finito di fare le fusa, ed ecco il terzo concept in
quattro anni. Questa volta Cooder indossa la maschera di Kash Buk, musicista
anni '50, appassionato di motori e di corse hot rod. E' lui, il flathead
del titolo (che più o meno sta per "zuccone", ma flathead nel gergo delle
corse clandestine di quegli anni è anche il nomignolo dato a un tipo di
motore fai-da-te), protagonista di un viaggio nel tempo nell'America di
metà '900, nell'epoca del rhythm & blues che diventa rock & roll, delle
corse lanciate sulle strade della California nel cuore (o nel culo, se
preferite) del sogno americano. Per scoprire che sessant'anni dopo di
quel sogno è rimasto ben poco.
Cooder ce lo racconta anche in un romanzo dallo stesso titolo, che ci
auguriamo di vedere tradotto in italiano (niente meno che un mix di Steinbeck
e Pynchon, a quel che si dice). Come accade in questi casi, più che la
meta è il viaggio che conta, e i compagni incontrati per strada: personaggi
surreali, alieni, musicisti country e freak di varia natura. Uno sguardo
nostalgico su un periodo in cui "la stranezza era la norma", secondo le
parole dello stesso autore. La musica naturalmente è parte fondamentale
di questa eccentricità, mescolando con la consueta perizia nel dosare
gli ingredienti un pizzico di follia post-moderna a quel suono vintage
che Cooder e i suoi complici (più o meno i soliti: tra gli altri, Flaco
Jimenez, Jim Keltner, il figlio Joachim, il trombettista John
Hassell) maneggiano come nessun altro. Troviamo così le fragranze mariachi
di Drive Like I Never Been Hurt di
fianco a un numero "stonato" (nel senso di Jagger & Richards) come Waitin'
For Some Girl; il centone di citazioni del Johnny Cash periodo
Sun (si intitola proprio così: Johnny Cash)
e l'omaggio a Bobby Bare di 5000 Country Music
Songs, in mezzo a ballate dai contorni western (Spayed
Kooley), danze da border (Filipino
Dance Hall Girl) e numeri di adrenalina rock come Ridin'
With the Blues. In Fernando Sez
sembra persino di sentire un'eco balcanica che ci stupirebbe, se non avessimo
a che fare con il musicista con le orecchie più aperte del pianeta.
Tutto perfetto, dunque? In realtà il disco sconta in parte la sua natura
narrativa: due intermezzi recitati infatti rompono l'equilibrio dell'album
e ne allungano la durata senza aumentarne l'appeal. Di contro, il già
citato Ridin' With the Blues, in cui Cooder torna a svisare sul manico
della Stratocaster come non faceva dai tempi di Get Rhythm, è purtroppo
solo un assaggio che viene sfumato dopo 3 minuti (lasciandoci con l'acquolina
in bocca, in parte soddisfatta dal successivo Pink-o-Boogie,
sostenuto da un grande lavoro di slide). Trona
Girl poi, unico brano non cantato in prima persona (la voce
è di Juliette Commagere), è una chiusura davvero un po' debole,
con quei suoni da Twin Peaks di frontiera.
Insomma, nell'attesa di leggere il romanzo, ci troviamo tra le mani un
album che ha il sapore di un capolavoro incompiuto. E che, ad accontentarsi,
si rivela "solo" l'ennesimo ottimo lavoro di quello che, probabilmente,
è il più importante musicista roots (nel senso ampio del termine) in attività.
Vi basta?
(Yuri Susanna)
www.nonesuch.com
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