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05/10/2007
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Lyle
Lovett and His Large Band 1/2 Un tempo il fatto che Lyle
Lovett avesse finalmente consegnato dopo cinque anni di attesa questo
It's Not Big It's Large sarebbe stata una notizia di primaria
importanza, oggi invece non si può fare a meno di notare lo scarso clamore
suscitato. Nel 1986 Lovett rappresentava con Steve Earle una sorta di
"new wave nashvilliana", gli headliners di una generazione di giovani
songwriters legati sì alla tradizione, ma con grandi possibilità di far
uscire il country dal zuccheroso filone in cui si era impantanato. Nel
1992 però, mentre Earle finiva a marcire nelle patrie galere, Lovett frequentava
il jet-set hollywoodiano, finiva sui rotocalchi rosa per la relazione
con Julia Roberts, e sempre più metteva il suo improponibile viso squadrato
al servizio dei campionari umani del regista Robert Altman. La storia
la conosciamo: Earle ne venne fuori con un periodo artisticamente esaltante,
Lovett invece, stanco dei clamori non certo in linea con il suo personaggio,
si è ritirato in un ostinato isolamento umano ed artistico. Da I Love
Everybody del 1994 in poi le sue produzioni si sono diradate, con risultati
mai esaltanti e allo stesso tempo sempre comunque soddisfacenti. It's
Not Big It's Large non cambia la situazione, parte già dalla nascita
per essere una ripresa di un discorso iniziato nel 1989 con Lyle Lovett
And His Large Band, cioè un grande melting pot stilistico fatto di swing
da big band, country e gospel. Il vecchio disco viene riprodotto anche
nella successione delle canzoni: stavolta si parte con lo strumentale
tutto fiati Tickle Toe e si passa
subito ai sette minuti di I Will Rise Up/Ain't
No More Cane, un mix tra un notevole brano di Lovett di stampo
spiritual e il noto traditional, che viene poi riproposto nel finale del
disco in una seconda coinvolgente versione. Siamo già al pezzo forte del
cd, perché poi Lovett offre un campionario di tutto quello che già sapeva
fare mettendoci molto mestiere (una ballata come This
Travelling Around uno come lui la scrive in cinque minuti..)
e andando a toccare le facili corde della commozione con la struggente
Don't Cry A Tear, forse per dare più
emotività a quel suo freddo aplomb. Come dovremmo comportarci davanti
all'ennesimo disco di tal guisa? Dovremmo forse sottolineare la perfezione
stilistica e la superiorità formale di un grande musicista o dovremmo
auspicare che un giorno finalmente qualcuno gli arroventi la chitarra
per dare a questo abile mestierante una smossa dal torpore creativo? Ad
aiutarci nella scelta per la prima opzione ci vengono in soccorso una
paio di splendide ballate come The Alley Song
e soprattutto la strepitosa South Texas Girl,
brani che ancora il "volgo profano" non sarebbe in grado di scrivere,
mentre tutto il resto è piacevole routine, dalle divertenti scampagnate
nella musica nera di Make It Happy
e All Downhill alla canonica
No Big Deal. Per questa volta gli è andata bene dunque,
Lovett ha avuto la fortuna di trovare le zampate vincenti per convincerci
ancora. Ma sia chiaro, è l'ultima volta che ci caschiamo… |