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10/10/2007 |
Thea
Hopkins
Una bella ma alquanto titanica impresa sarebbe riuscire a stilare una precisa
geografia di tutte le scene locali statunitensi, città per città, onde meglio
comprendere meglio dischi come questo Chickasaw di Thea Hopkins,
che ci arriva in redazione seguito da precisi elenchi di premi vinti in gare cittadine
o esaltazioni di giornali di contea. Vista l'impossibilità di tanta certosina
analisi, e restando con la non risolta curiosità di sapere ad esempio chi vinse
in quel Boston Folk Festival del 2004 dove Thea si piazzò al secondo posto, prendiamo
per buona la definizione di "one of the most literate, poetic and emotionally
moving of the new singer-songwriters". D'altronde è impossibile per noi non
essere incuriositi da un disco sottotitolato come una raccolta di "American Short
Story Folk", etichetta che rende subito evidente il carattere molto letterario
delle sue canzoni. Di fatto la Hopkins si rivela subito essere una penna veramente
notevole, con uno stile lirico che predilige il racconto per immagini e suggestioni.
Si prenda ad esempio il plot di Jesus Is On The Wire
(un brano inciso anche in un disco recente dallo storico trio folk Peter, Paul
& Mary), storia di un ragazzo di strada trovato morente sul ciglio della Route
25, ma con un testo che si sofferma nel descrivere la visione di quello che sta
intorno al corpo, relegando ad un unico verso ("They said that he slept with guys")
l'unica ambigua spiegazione dell'accaduto. Oppure ancora l'avvincente title-track,
una sorta di Hey Joe al contrario, dove la Hopkins racconta tutte le fasi del
viaggio in treno di una squaw indiana (lei stessa è una mezza pellerosse) che
armata di pistola va in città ad ammazzare il cowboy che l'ha sedotta e abbandonata.
Ma anche racconti personali (Newspapers Wings),
poesie d'amore alla Emily Dickinson (Once There Was A
Lover), veri e propri road movie in versi (Medicine
Line) e appassionati canti religiosi (Little
White Church). Purtroppo però trattandosi non di un libro ma di una
collezione di canzoni, arriviamo al punto ancora dolente: la Hopkins ha una voce
molto particolare, quasi jazzistica (ricorda lontanamente quella della chanteuse
Madeleine Peyroux), ma il risultato che ottiene risulta essere piuttosto monocorde,
ed è difficile quasi distinguere una canzone dall'altra. Non l'aiutano uno stuolo
di pur validi musicisti come il pianista Tim Ray e la pletora di chitarristi
di professione tra cui David Goodrich e Bob Metzeger, gente che
vanta Suzanne Vega, Leonard Cohen o Lyle Lovett nel curriculum, che realizzano
un bel tappeto acustico multilivello (sempre almeno 4 o 5 strumenti a corda in
contemporanea), purtroppo reiterato in maniera poco varia per tutto il disco.
Promossa dunque la sostanza, rimandata la forma, ma una menzione speciale per
la canzone Jenny Danced, descrizione dei
sogni di una bambina che sente i genitori litigare al di là del muro: un brano
devastantemente bello che speriamo venga notato presto da un interprete di maggior
peso. |