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21/09/2007
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Terry
Lee Hale Carriera davvero oscura quella
di Terry Lee Hale: fin da sempre relegato ai margini del business
discografico, pochi si ricordano dei suoi primi passi in quel di Seattle
e della sua presenza come esordiente nella raccolta Subpop-200 del 1988,
la compilation di singoli della famosa etichetta del luogo, considerata
come la culla del grunge. Lui con il grunge in verità c'entrava poco,
anche se ancora oggi ha in cantiere un disco di brani di artisti di Seattle
scritti appositamente per lui che si prefigura interessante. Frontier
Motel del '93 e Tornado Alley del '95 lo segnalarono come promessa per
il nuovo folk americano, ma da allora in poi Terry ha vivacchiato con
pochi mezzi, bei dischi mal prodotti (Leaving West del 1996 è un grande
disco mancato), fino alla fuga nella più ricettiva Europa (una storia
già vista tante volte nel genere…). Non è un caso che questo Shotgun
Pillowcase sia stato registrato, come il precedente Celebration
What For, negli studi Zuma di Lubjana con musicisti sloveni, sotto la
guida del produttore e amico di lunga data Chris Eckman dei Walkabouts..
E se il precedente lo ricordiamo come una buona raccolta di folk-song
autoriali e molto tradizionali nella struttura, in questa occasione Hale
si è lanciato in coraggiose sperimentazioni che conciliano il suo dark-sound
folk con influenze jazz e di varia ambient-music europea. Batterie elettroniche
ovunque (ben programmate da Eckman però, non danno quasi mai la sensazione
di musica plastificata), la tromba alla Chet Baker di Andrei Jakus
a fendere l'aria nei momenti più coinvolgenti, evocative code strumentali
che ci riportano al trip-hop di dieci anni fa (sentite il lungo finale
di Streets Of Stone), sperimentazioni acustiche (gli strumentali
Oliva e He's Still Drinking), persino una versione acustica
di un brano dei Blur (No Distance Left To Run, era su 13 del 1999,
ma l'originale, con le sue pigre schitarrate, era un'altra cosa). Tante
belle idee, qualche ottima canzone (Hearts e Work Song tra
le migliori), ma purtroppo, come è già successo spesso nel suo passato,
un insieme finale che non convince completamente, causa i troppi momenti
ancora involuti (il rap di Level 20 all'inizio sorprende, ma lascia
il tempo che trova) e i troppi sbadigli provocati qua e là (la waitsiana
Evergeen non decolla). Il fatto che quando il nostro tira fuori
dagli inferi del suo songbook un classicissimo blues come Cable Ballad
Blues ci si senta finalmente a casa dopo tanto peregrinare in terre
lontane dà l'idea di come forse certi artisti dovrebbero pensarci due
volte prima di mettere un nuovo paio di scarpe (per dirla come direbbero
gli americani…). Nel suo sito Hale racconta la genesi del disco, dei mille
dubbi e dell'emozione di creare qualcosa di nuovo, e qui sta la grandezza
di Shotgun Pillowcase, nell'essere una esperienza umana e artistica raccontata
con grande sincerità e trasporto, e ovviamente in questi lidi la cosa
è più che apprezzata. Anche se i grandi dischi forse sono un'altra cosa…
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