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28/05/2007
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Jeff
Finlin Bizzarra l'operazione commerciale
che sta dietro la pubblicazione di Angels In Disguise. Pensate
infatti che non si tratta del vero e proprio nuovo album di Jeff Finlin,
ma bensì della riedizione di Epinonymous, disco pubblicato nel 2005 e
registrato a Nashville nel 2004, in compagnia di Pat Bachanan e
Will Kimbrough. Per di più, il binomio Ryko-Warner Korova, a seguito
dell'inclusione di un pezzo di Finlin (Sugar Blue, da noi segnalata al
tempo del precedente Somewhere
South Of Wonder, correva il 2002) nella colonna sonora del
film di Cameron Crowe, Elizabethtown, ha deciso di pubblicare Angels
In Disguise prima per il mercato britannico e poi, dopo ben otto mesi,
per quello statunitense. Vista la discreta valenza del lavoro, il meritato
trambusto ha permesso a Finlin di aumentare la propria quotazione al "mercato
ristretto" della musica indipendente. Come detto, la qualità merita attenzione:
nell'ascoltare il disco tira un vento "fastidioso", che fa echeggiare
alcuni dei suoni più nascosti di Asbury Park. Il Finlin qui presente,
non più un novellino (poche pubblicazioni ma tanta gavetta), sembra peraltro
voler fare il verso al Graham Parker d'annata, ma anche concedersi in
versatili evoluzioni da moderno troubadour: il percorso dei pezzi
è ben articolato, con saltuari accorgimenti pianistici che solo alcuni
giovani ed intraprendenti artisti britannici sanno piazzare; il cantato
ha il piglio bislacco da cane bastonato; la commistione fra acustico ed
elettrico è equilibrata (vedi Better Than This e Break You Down);
la visione velata e jazz di canzoni come Forever Evergreen e Nothing's
Enough (da club Newyorkese) tocca i confini dell'arte di Garland Jeffreys.
Jeff Finlin elargisce pure alcune ballate che hanno tutti i crismi per
fare rientrare il nostro nell'ampia schiera dei cosiddetti Nuovi Dylan
(ma ormai non più giovanissimi, vedi Elliott Murphy). American Dream
# 109, Bringing My Love e The Long Lonesome Death Of The
Travling Man (già il titolo dice parecchio) sono alcuni esempi, ai
quali si aggiungono Soho Rain e Don't Know Why, brani in
prevalenza acustici, nei quali il lavoro di Will Kimbrough alla chitarra
lascia veramente il segno. Durante ogni estratto affiora la capacità narrativa
di questo songwriter girovago, originario di Cleveland e dal mainstream
blue-collar, ben evidente nella canzone che dà il titolo alla nuova
edizione di Epinonymous. |