Brian
Ferry Dylanesque
[Virgin
2007]
Lui
sembra sempre più il protagonista del romanzo Il Ritorno di Casanova di Arthur
Schnitzler, dove lo scrittore austriaco immaginava il ritorno a Venezia dopo l'esilio
del vecchio dongiovanni, voglioso di rivedere i luoghi dei suoi anni ruggenti
fatti di donne e avventure. Finita l'era dei lustrini del glam-rock degli anni
'70, finiti i suoi gloriosi anni '80, quando insegnava dandysmo e arte della seduzione
a schiere di diligenti alunni new-romantics, ora che Slave To Love non
fa più da colonna sonora agli amori dei teen-agers ma è diventata un sofferto
canto per vecchi rocker col cuore spezzato come Willy DeVille, per lui sembra
proprio che il party cantato in Avalon sia davvero finito. E visto che nel precedente
e dignitoso album del 2002 (Frantic) si erano segnalate per particolare
bellezza due cover di Bob Dylan, Brian Ferry ha pensato bene di fare un
intero disco dedicato all'argomento, scelta certo non originalissima, ma che perlomeno
gli permette di affrontare la pensione con maggiore dignità di altri playboy incalliti
alla Rod Stewart. Lo aiutano nell'impresa una voce diventata bellissima e profonda,
una produzione ottima ed essenziale, mainstream ma con gusto, una band fatta dei
soliti vecchi amici (Brian Eno, Robin Trower, ecc…) e ovviamente
un repertorio che basta a sè stesso. Non lo aiuta invece l'art-director che gli
confeziona la più brutta copertina della sua carriera. Che i tempi siano cambiati
lo si capisce subito riportando alla mente l'irriverenza con cui il giovane Ferry
interpretò A Hard Rain's A-gonna Fall nel suo Foolish Things del 1973, comparata
alla composta devozione con cui affronta oggi la stessa materia. Il risultato
è un disco che serve alle cronache e non alla storia, ma che offre se non altro
una via di qualità per far conoscere queste canzoni anche alle nuove generazioni.
Il difetto più evidente del cd è però proprio la scelta del repertorio, perché
il mondo non aveva certo bisogno delle ennesime versioni di Knocking On Heaven's
Door, All Along The Watchtower o The Times They Are A-changing,
e quando si sceglie tra il materiale recente si opta per la facile Make You
Feel My Love, di cui già potevano bastare le versioni di Billy Joel e Joan
Osborne. Anche qualche versione non funziona a dovere, come una debole If Not
For You o una troppo ingentilita Positively 4th Street (non si può
trasformare in serenata un elenco di insulti, paradossalmente l'avevano intesa
meglio i stucchevolissimi Simply Red nella loro versione del 2003). Ottime invece
le versioni di brani meno immediati come Gates Of Eden, Just Like Tom
Thumbs Blues e Baby Let Me Follow You Down. Il resto è pura esibizione
di stile, consigliata solo a indomiti dylanologi o a neofiti in cerca di valide
introduzioni all'argomento. (Nicola Gervasini)
www.bryanferry.com
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