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22/08/2006
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Strays
Don't Sleep Non ne sapevamo niente, e
infatti ne parliamo con un anno di ritardo, ma Matthew Ryan, in
un insolito team-up con Nelson Hubbard (voce, chitarra, synth,
piano, percussioni), col chitarrista di Garrison Starr Brian Bequette,
col basso di Billy Mercer (occasionalmente al fianco di Ryan Adams)
e con i tamburi dell'ex-Agent Orange Steve Latanation denominato
Strays Don't Sleep, ha prodotto un nuovo album. Il quale album,
sia detto per inciso e con la morte nel cuore, mi sembra il primo, inequivocabile
passo falso di una carriera sinora impeccabile sebbene mai aiutata dalla
fortuna. L'eponimo debutto di questa band estemporanea (o forse no, vedremo
cosa ci dirà il tempo) abbina musica e immagini in un contenitore fortemente
ricercato, voluto, pensato: 9 brani su cd e altrettante clip su dvd venduti
in un'unica, indivisibile soluzione, poiché a detta degli autori i suoni
sono inseparabili dai corti e viceversa. I principali artefici del lavoro
sono Ryan e Hubbard, l'uno ispirato da Leonard Cohen e dai Clash, l'altro
da Björk e Frank Sinatra. Le ascendenze sono individuate dagli stessi
interessati, che spesso dirigono i piccoli film abbinati alle canzoni
facendosi aiutare da sconosciuti filmakers indipendenti. I video sono
semplicemente orrendi: tutta la paccottiglia del cinema indie americano
liofilizzata in un'unica maratona, con prevedibili immagini di solitudine
e abbandono, riprese sfuocate, alberi tremolanti, stanzette spoglie, ralenti
da manicomio, luci al neon, sequenze autunnali e non un'idea originale
che sia una. E le canzoni? Be', le canzoni oscillano molto, alternano
cose buone e cose sconcertanti; soprattutto, si inscrivono di prepotenza
in una dimensione pop che mi sembra non appartenere né a Ryan né ai suoi
compagni d'avventura. Gradite eccezioni sono l'iniziale Love Don't
Owe You Everything, pop cristallino e di eccellente fattura, e la
fragile litania semi-acustica di April's Smiling At Me, entrambe
firmate da Hubbard, che divide i crediti di scrittura con Ryan praticamente
al 50%. Dei due, a convincere meno è proprio Hubbard, quello che più spesso
tenta la carta del suono minimalista confondendone tuttavia le coordinate
con quelle della ripetitività pura e semplice, mentre Ryan prova ad ampliare
in modo costruttivo le intuizioni moderniste dell'ultimo Regret
Over The Wires (2003) con risultati di maggiore efficacia:
Pretty Girl è un discreto esercizio di pop-rock tradizionalista,
la bella Martin Luther Ave. tratteggia desolati scenari urbani
carichi di pioggia e sconforto, For Blue Skies e Cars And History
inseguono la tormentata angoscia rockista degli esordi (salvo poi annullarla
in chorus tanto gradevoli quanto scontati). Alcune riviste hanno straparlato
di una versione futuribile e metropolitana dello springsteeniano Nebraska,
ma a questo punto devono aver ascoltato un altro disco. Qui ci sono soltanto
immagini vecchie, suoni vecchi a dispetto delle pretese di attualità sintetica
e un autore immenso - Matthew Ryan - alle prese con alcuni scarti. Troppo
poco per consigliarne l'acquisto. |