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inserito
20/10/2005
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Si
è creato un discreto passaparola su questo strambo personaggio: Langhorne
Slim, ragazzo del New England, porta un nome degno di un bluesman
incartapecorito del Sud e capeggia con fare un po' arruffato sulla copertina
di When the Sun's Gone Down. Si tratta del suo esordio sulla
distanza dopo un ep di assaggio lo scorso 2004, Electric Love, che lo
ha catapultato sulla scena, a dire il vero un po' inflazionata, dei nuovi
menestrelli folk. Anche nel suo caso infatti si sono scomodati rimandi
e citazioni che pescano nelle anticaglie della tradizione rurale americana,
in un'opera di rifacimento country blues che sembra avere contagiato una
larga fetta dell'ultima generazione di songwriters. Se qualcuno pensasse
ad un altro caso Devendra Banhart, magari rispolverando la fastidiosa
denominazione di pre-war folk lasci perdere: le etichette rischiano spesso
di imbrigliare facilmente la musica di un artista emergente. When the
Sun's Gone Down è piuttosto uno scherzo bene architettato, dando l'impressione
di una seduta di registrazione informale, un po' ridanciana, dove Langhorne
Slim si è divertito un mondo a biascicare le sue ballate scheletriche
e zoppicanti, a tratti disadorne all'inverosimile (Drowning, Checking
Out). La voce è stridula, la chitarra rigorosamente acustica, i ritmi
sghembi, i punti di riferimento stilistici evidenti al primo ascolto,
anche se l'approccio appare forse volutamente forzato: punk per attitudine,
ma lo sarà anche nell'anima? Lascio aperta la discussione se alcune di
queste proposte non finiscano per essere un poco truffaldine, resta il
fatto che tutto qui suona approssimativo, all'apparenza onesto e senza
filtri, a cominciare da una In the Midnight che corre a rotta di
collo sulle note di una hillbilly music fuori moda. Alla produzione c'è
Malachi de Lorenzo, figlio del più famoso Victor, musicista delle
Violent Femmes e il cerchio idealmente si chiude: queste canzoni sono
loro figlie legittime, seppure meno fantasiose e rivoluzionarie, una coda
imprevista dell'epocale omonimo esordio tanto quanto dello strepitoso
e troppo spesso dimenticato country sbilenco di Hallowed Ground. Dai solchi
di quei dischi e dal loro immaginario bizzarro, escono l'eccentricità
folk di Mary, il cow-punk per banjo (Charles Butler) e chitarre
di Set 'em Up, I Ain't Proud e I Will, la foga danzereccia
di And if It's True (con l'armonica di John kingsley hall)
e Hope and Fullfillment, fino alla stracciona I Love to Dance,
un ubriaco canto country-blues da bettola esaltato dall'intrusione di
trombone e sax. |